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I danni collaterali della BRI nel Sudest asiatico non arrestano gli investimenti cinesi

Agnese RanaldibyAgnese Ranaldi
Giugno 10, 2022
in Asia Orientale e Oceania
Reading Time: 6min read
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I danni collaterali della BRI nel Sudest asiatico non arrestano gli investimenti cinesi

Costi sociali e ambientali rallentano i progetti della Belt and Road Initiative cinese nel Sud Est asiatico, afferma un recente rapporto dell’ISEAS Yusof Ishak Institute. Secondo gli analisti, però, il legame tra Pechino e i paesi dell’Associazione delle Nazioni del Sudest Asiatico (ASEAN) è molto saldo, come dimostra la promozione delle relazioni bilaterali al rango di “partenariato strategico” nel 2021. Nonostante le difficoltà legate all’interruzione delle catene globali del valore e alle contese territoriali nel Mar Cinese Meridionale, la strategia di sviluppo globale promossa da Pechino non accenna ad arrestarsi. Gli investimenti cinesi vireranno quindi su infrastrutture “soft” come quelle sanitarie e digitali, mettendosi in sicurezza rispetto alle incertezze economiche dettate dalla crisi sanitaria, alle numerose controversie sui risarcimenti per danni ambientali e all’aumento della conflittualità sociale esasperato da alcuni progetti in corso. 

Tra gennaio 2021 e marzo 2022 la BRI includeva circa 833 progetti in tutto il mondo, di cui circa il 29% si svolge nei paesi del Sudest asiatico. La maggior parte dei piani infrastrutturali si concentra in cinque settori: energia (29%), trasporti (23%), metalli (18%), costruzioni (8%) e prodotti chimici (6%). Dal report dell’ISEAS emerge come la pandemia abbia rallentato i progetti della BRI a livello globale: a giugno 2020 circa il 20% era “seriamente colpito” dalle restrizioni derivate dalla crisi sanitaria, mentre un altro 30-40% era “parzialmente modo colpito”. Nel frattempo, però, il Sudest asiatico è salito al primo posto tra le destinazioni di investimento, mentre a livello mondiale si registrava un forte calo degli investimenti. 

Nonostante gli annosi attriti causati dalle rivendicazioni di sovranità nel Mar Cinese Meridionale, il legame tra Repubblica popolare cinese e paesi del Sudest asiatico è rimasto profondo e capillare, e spazia dal dominio commerciale a quello securitario e politico. Nelle relazioni col vicinato meridionale, infatti, il governo cinese promuove una politica estera imperniata sulla persecuzione della stabilità regionale – funzionale ad assicurare anche la stabilità interna del regime. Con questo obiettivo, Pechino intende giocare un ruolo di primo piano nello sviluppo dei mercati emergenti del Sudest asiatico, presentandosi come principale fonte di capitali funzionali allo sviluppo regionale. “Il Sud-Est asiatico è salito al primo posto tra le destinazioni di investimento della Belt and Road nel 2020 nonostante il forte calo degli investimenti complessivi della Cina nella Belt and Road Initiative a livello mondiale”, ha affermato Wang Zheng, autore del rapporto dell’ISEAS. A causa della contrazione del commercio globale e del rallentamento dell’economia integrata dettati dalla pandemia, l’impegno cinese nella regione si sarebbe spostato a favore di infrastrutture “soft”, sanitarie e digitali. Lo dimostra, secondo il rapporto, la crescente importanza della Via della Seta Sanitaria e della Via della Seta Digitale nell’agenda della Belt and Road Initiative.

Il modello di sviluppo promosso dalla Belt and Road Initiative appare però controverso su più punti, con costi sociali e ambientali elevati. Uno dei paesi che riceve più investimenti nell’ambito della BRI è l’Indonesia, che conta 40 progetti all’attivo. I costi sociali di questi piani infrastrutturali, tuttavia, hanno contribuito a inasprire la conflittualità sociale, dando anche adito a proteste a sfondo xenofobico. È stato il caso della manifestazione studentesca che ha incendiato nel 2020 la provincia di Sulawesi, dove un centinaio di persone si sono raccolte nell’aeroporto di Kendari per una caccia all’uomo contro i lavoratori cinesi. Il flusso di lavoratori non qualificati dalla Cina continentale rischiava di spingere a ribasso i salari della stessa classe di lavoratori autoctoni, causando malcontento sociale. “Li rifiutiamo perché non sono stati assunti tramite il [Piano di impiego dei lavoratori stranieri] controllato dal Ministero della Manodopera“, ha dichiarato un organizzatore, “pertanto, riteniamo che questi lavoratori stranieri siano illegali“. Le due società minerarie che hanno assunto gli operai cinesi hanno dichiarato di aver avuto bisogno di attingere a una manodopera qualificata straniera a causa della scarsa disponibilità di risorse locali. Gli studenti contestavano invece il fatto che questi lavoratori “illegali” e “non qualificati” occupassero posti di lavoro riservati alla comunità locale. 

Tali contestazioni si innestavano nel clima di sofferenza economica causato dalla pandemia, e il risentimento dei cittadini indonesiani di fronte all’aumento della disoccupazione ha trovato sfogo nel confronto con l’immigrazione cinese. Secondo Muhammad Zulfikar Rakhmat, docente presso l’Università dell’Islam Indonesiana, le autorità nazionali hanno cercato di “giustificare la situazione dicendo di avere bisogno di lavoratori cinesi e di investimenti cinesi”, per promuovere la ripresa economica e tornare a foraggiare l’economia nazionale.

Un altro nodo problematico dell’implementazione della BRI nel Sudest asiatico sono i danni ambientali causati dalla scriteriata realizzazione di grandi opere insostenibili, come le dighe che affollano il bacino del Mekong e i collegamenti ferroviari dell’alta velocità. Lo sviluppo dei mercati emergenti della regione ASEAN si associa a una forte domanda di infrastrutture, cui la BRI corrisponde ingenti investimenti. Ma le comunità rivierasche del Laos, ad esempio, hanno ingaggiato con le società cinesi annose controversie per il risarcimento dei danni causati ai raccolti e alla fauna fluviale – le due principali fonti di reddito delle comunità laotiane che abitano lungo il fiume Mekong. La controversa strategia di crescita del Laos, che punta a divenire la “batteria del Sudest asiatico”, sembra mettere in crisi la possibilità di uno sviluppo sostenibile per le popolazioni residenti. Questi progetti hanno infatti determinato il deperimento degli stock ittici e la distruzione dei raccolti, compromettendo il benessere economico, sociale e ambientale delle popolazioni rivierasche. 

L’analisi dei dati presentata nel rapporto dimostra che la Cina è ancora impegnata ad approfondire i legami con i paesi del Sudest asiatico nonostante le difficoltà post-pandemia, ma secondo Wang Zheng “le preoccupazioni locali sui costi sociali e ambientali influenzeranno probabilmente le prospettive dei progetti BRI nella regione”. Ma le esternalità negative causate dai progetti infrastrutturali cinesi fanno luce su un fenomeno poco considerato dalle politiche di sviluppo promosse dai paesi coinvolti. Dal report dell’ISEAS sembra infatti emergere lo scarto tra gli imperativi di crescita delle economie regionali e la tenuta del tessuto sociale e quella degli ecosistemi naturali su cui impattano i progetti della strategia di sviluppo globale cinese. Mentre a Pechino e in ASEAN le autorità nazionali celebrano il trionfo dell’alta politica con l’implementazione di modelli di crescita insostenibili, le istanze dal basso delle comunità del Sudest asiatico restano ancora inascoltate.

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Tags: ASEANBelt and Road InitiativeCinasudest asiatico
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