La Corea del Nord ha annunciato il primo focolaio accertato di Covid-19 lo scorso 12 maggio, imponendo così un rigido lockdown su scala nazionale. Nonostante ormai i casi sospetti di influenza siano saliti a 1,7 milioni, Pyongyang continua a guardare con diffidenza alle proposte di aiuto umanitario avanzate dai paesi “ostili”: la priorità del governo centrale rimane la sicurezza nazionale, anche in caso di emergenze sanitaria.
Per più di due anni, il presidente nord-coreano Kim Jong Un aveva, a più riprese, dichiarato di essere riuscito a mantenere il coronavirus fuori dai confini nazionali. Fino ai primi giorni di maggio, la linea da seguire era chiara: tenere sigillate le frontiere così da non dover ricorrere ad alcun tipo di campagna vaccinale. Nel 2021, il governo aveva rifiutato l’offerta del programma COVAX gestito dalle Nazioni Unite, rimandando al mittente le numerose dosi di vaccini Sinovac e Astrazeneca necessarie a immunizzare la popolazione. Nonostante ciò, a metà maggio, dopo aver rilevato la variante Omicron Ba2 in alcuni campioni positivi, Kim Jong-un si è visto costretto a imporre un primo lockdown su scala nazionale in seguito alla “grave emergenza” che sta colpendo il paese.

In assenza di un sistema sanitario all’avanguardia, e con una popolazione priva di qualsiasi tipo di protezione vaccinale, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha emanato un comunicato ufficiale in cui si dichiara profondamente preoccupata per l’attuale situazione nel paese. Tedros Adhanom Ghebreyesus, il direttore generale dell’OMS, ha pubblicato un tweet in cui invita il governo nord-coreano a condividere dati e informazioni utili a fermare in anticipo il contagio. Dopo averla definita una “grande disgrazia”, Kim Jong-un ha chiesto al Politburo di prendere tutte le misure necessarie per eliminare la fonte di infezione alla radice. Come riporta un articolo dell’agenzia di stampa pubblica KCNA, in questi giorni sono in corso numerose campagne di sensibilizzazione, con le quali la popolazione è stata invitata a seguire le linee guida governative necessarie a tenere i contagi sotto controllo.
Vista la situazione, il neo presidente sudcoreano Yoon Suk-Yeol, vincitore delle elezioni di marzo, ha offerto l’invio di aiuti e attrezzature mediche a Pyongyang. Le relazioni tra i due Paesi non sono mai state eccellenti, e si sono deteriorate progressivamente all’inizio del 2019 a causa dello stallo nei negoziati sul nucleare. Gli affari militari e di sicurezza nazionale però sono una cosa ben diversa dal soccorso umanitario: la grave ondata di questi ultimi giorni potrebbe portare Seul e Washington a rivedere la loro strategia di politica estera nei rapporti bilaterali con la Corea del Nord. La scelta di inviare materiale sanitario a Pyongyang è molto probabilmente una mossa diplomatica della nuova agenda politica del presidente Yoon, il quale, durante il suo discorso di insediamento aveva affermato di voler lasciare “la porta aperta al dialogo” con il nord. Ad oggi, i funzionari nordcoreani non hanno mai risposto all’offerta di assistenza sanitaria inviata dal Sud, preferendo invece gli aiuti d’emergenza provenienti dalla Cina. Sebbene da Pechino ancora non siano arrivate conferme né smentite riguardo a forme di assistenza fornite alla Corea del Nord, il portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin ha ribadito pubblicamente che Cina e Corea del Nord sono sempre stati paesi amici, e che Pechino sarà sempre disposta a collaborare con Pyongyang “per sostenersi a vicenda e rafforzare la cooperazione nella lotta alla pandemia“.

La diffidenza di Pyongyang nell’accettare aiuti umanitari provenienti da paesi storicamente ostili potrebbe aggravare una situazione di per sé altamente instabile. Due anni di pandemia hanno mostrato che la mera adozione di rigidi lockdown serve a ben poco se non affiancata da sistemi sanitari ben strutturati: senza materiali ad alta tecnologia come intubatori, ossigeno e dispositivi di protezione personale, il fragile sistema sanitario nordcoreano difficilmente riuscirà a sostenere un alto numero di ricoveri.
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