Mentre in Europa l’agenda mediatica si concentra sulla guerra in Ucraina e sulla dipendenza del vecchio continente dal gas russo, nel Sud del mondo, e più precisamente in Madagascar, la popolazione sta pagando un prezzo altissimo per le emissioni globali di CO2, connesse per due terzi proprio all’uso di combustibili fossili a scopo energetico. Il 23 giugno 2021 il Programma Alimentare mondiale (World Food Program, WFP) dell’ONU ha lanciato un allarme sulla critica situazione del Madagascar che “sta attraversando la peggiore siccità degli ultimi quattro decenni con oltre 1,14 milioni di persone insicure dal punto di vista alimentare […] di queste, circa 14.000 persone sono già in condizioni catastrofiche, note come IPC Fase 5, che raddoppierà entro ottobre”.
La gravità della situazione ha costretto migliaia di persone a lasciare le proprie case alla ricerca di acqua e cibo, mentre altre tentano di sopravvivere cibandosi di alimenti selvatici: “le famiglie vivono da mesi di frutti rossi crudi, di cactus, foglie selvatiche e locuste”, ha affermato il direttore esecutivo del WFP David Beasley, aggiungendo che il livello di malnutrizione acuta globale (GAM) nei bambini sotto i cinque anni in Madagascar è quasi raddoppiato negli ultimi quattro mesi, raggiungendo un allarmante 16,5%.
Il destino del Madagascar sembra essere comune a quello del Corno d’Africa e della Somalia, anch’essi paesi vittime dei cambiamenti climatici. In entrambi i paesi sono saltate consecutivamente tre stagioni delle piogge e in alcune aree all’aridità sono seguite anomale precipitazioni. Questo ha provocato alluvioni mai viste e ha fatto crescere un numero record di locuste, le quali hanno assaltato i pochi raccolti rimasti. Secondo Save the Children, il 70% delle famiglie somale è priva di acqua potabile e la Somalia è tra i Paesi più vulnerabili rispetto ai cambiamenti climatici, come conferma monsignor Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio.

Oltre alle difficoltà dovute ai cambiamenti climatici, alcuni paesi del continente africano – come Egitto, Congo, Burkina Faso, Libano, Libia, Sudan e Yemen – sono sull’orlo di carestie dovute alla difficoltà del WFP nel reperire le materie prime destinate agli aiuti alimentari a causa del conflitto russo-ucraino. L’allarme cibo e povertà è infatti al massimo livello, con le Nazioni Unite che avvisano: “la guerra della Russia contro l’Ucraina minaccia la quota di cibo mondiale che normalmente si riesce a fornire e a mettere a disposizione dei paesi in via di sviluppo, in particolare dei più poveri del mondo”. Lo stesso David Beasley ha detto che il 50% del grano che il programma acquista per sfamare i 125 milioni di persone che raggiunge proviene dall’Ucraina, così come il 20% della fornitura mondiale di mais. Quindi la guerra tra Russia e Ucraina avrà un impatto catastrofico a livello globale sia nel breve che nel medio-lungo periodo.
Tra gli effetti a breve termine del conflitto vi sono i ritardi e le cancellazioni di spedizioni di piselli e orzo dal porto di Odessa e destinati all’Africa occidentale; nel lungo termine, la principale ripercussione sarà un aumento generale dei prezzi alimentari globali, causato a sua volta dalla maggiore difficoltà di reperimento delle materie prime.
L’approvvigionamento di legumi per le operazioni del WFP dipende infatti dalle esportazioni ucraine. Un terzo della fornitura del WFP di piselli gialli nel 2021 è arrivato dall’area del Mar Nero, raggiungendo diverse regioni dell’Africa subsahariana. Diversificare l’approvvigionamento di legumi in caso di indisponibilità dell’Ucraina aumenterà probabilmente i costi logistici complessivi di circa 3 milioni di dollari USA al mese, oltre a prolungare i tempi di consegna. Tali aumenti dei costi per l’approvvigionamento di grano e legumi si aggiungono all’impatto già causato dalla pandemia, che ha visto i prezzi alimentari globali aumentare del 36% rispetto al 2019.
I fenomeni citati, crisi climatica e crisi alimentare, sono figli del paradosso per cui i paesi più colpiti da catastrofi ambientali e umanitarie sono quelli in via di sviluppo e i principali responsabili le nazioni industrializzate. Il tutto esacerbato dai conflitti, sia interni (secondo un report del Norwegian Refugee Council dei conflitti attualmente in corso nel mondo 9 su 10 sono in Africa), sia esterni, come quello russo-ucraino. Chi dovrà trovare soluzioni per evitare l’acuirsi di una situazione ormai già critica saranno le stesse nazioni industrializzate. Un circolo vizioso, forse, senza fine.
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