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Elezioni in Serbia: l’impatto sugli equilibri europei

Sara Varcounig BalbibySara Varcounig Balbi
Aprile 18, 2022
in Europea Orientale e Asia Centrale
Reading Time: 9min read
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Elezioni in Serbia: l’impatto sugli equilibri europei

Belgrado, inizio primavera: nei seggi elettori si conteggiano gli ultimi voti. I notiziari danno i risultati degli exit poll: Aleksandr Vučić è riconfermato presidente. L’esito era prevedibile. Da quando è salito al potere l’azione del suo governo è stata quella di consolidare la propria posizione alla guida del Paese.Il 3 Aprile 2022 i cittadini serbi si sono riuniti per votare il nuovo Presidente della Repubblica e i deputati che andranno a formare la nuova legislatura in Parlamento, oltre alle amministrazioni comunali di diverse città. Alle presidenziali la figura di Vučić ha dominato la scena ottenendo una percentuale di voti intorno al 59%, stabilizzando così la propria posizione rispetto alle elezioni precedenti del 2017. Il suo principale oppositore, l’ex generale e diplomatico Zdravko Ponoš, si è posizionato secondo, con una percentuale di voti intorno al 18%.

Per quanto riguarda le elezioni parlamentari, indette in anticipo rispetto alla fine della legislatura programmata per il 2024, il partito del presidente, il Partito Progressista Serbo (SNS), ha subito un ridimensionamento rispetto alle votazioni precedenti. Nel 2020 il SNS aveva ottenuto una percentuale di voti intorno al 63%, riuscendo a formare un governo monocolore. In queste elezioni, il suo vantaggio si è ridotto ed è sceso al 43%. Questo risultato è dovuto alla candidatura della lista “Uniti per la Vittoria della Serbia”, che ha riunito i principali partiti di opposizione, dopo il fallito tentativo di boicottaggio delle elezioni del 2020.  La lista ha ottenuto così il 13% ed è ritornata in Parlamento dopo due anni di assenza. Con questi risultati Vučić sarà costretto a formare un governo di alleanza per poter avere la maggioranza e secondo la Costituzione serba per farlo ha novanta giorni di tempo. In conclusione, l’affluenza è aumentata rispetto al 2020 vedendo la partecipazione del 58% della popolazione.

Nonostante l’esito fosse scontato, queste elezioni segnano un punto cardine nei fragili equilibri dell’area balcanica. La Serbia si colloca tra gli Stati aventi un regime ibrido e la rielezione di Vučić conferma la svolta nazionalista di destra intrapresa da questo Paese. Numerose organizzazioni internazionali hanno denunciato la presenza di irregolarità nei processi di voto. Il Consiglio d’Europa, infatti, ha evidenziato la presenza di condizioni di forte disparità fra i diversi partiti, nonostante la garanzia del rispetto delle libertà fondamentali. Gli esempi non mancano: dalla presenza dei cosiddetti “elettori fantasma” alla censura degli analisti e dei media contrari alla linea di Vučić, il tutto contornato da un aumento degli attacchi online e della campagna di odio verso i principali oppositori al governo.

Inserendo questa tornata elettorale in un contesto più ampio, è lecito chiedersi come gli equilibri europei ne verranno influenzati. La Serbia si è sempre collocata come un Paese diviso fra due mondi, con uno sguardo rivolto ad Occidente e uno verso Est. Questa complessa situazione la pone in una posizione ambigua, mai del tutto definita, che si riflette nella politica estera attuale. Lo stesso Vučić, durante un summit nell’ottobre 2021, aveva dichiarato che la Serbia voleva essere parte dell’Unione Europea, senza rovinare le relazioni con la Cina e la Russia. Infatti il Presidente serbo ha necessità di mantenere un filo diretto con il Cremlino per evitare una crisi energetica. Vladimir Puntin è il suo “kingmaker dell’energia” , com’era stato definito dallo stesso Vučić  in conferenza stampa. 

Lo scoppio della guerra in Ucraina ha collocato la Serbia in una posizione ancora più difficile da mantenere. Vučić, notoriamente filorusso, ha dichiarato di voler mantenere un rapporto amichevole e di partnership con Mosca. Questo non deve sorprendere perché i rapporti fra i due Paesi sono molto stretti sotto il profilo economico e militare. Inoltre, la Serbia è economicamente dipendente dal gas russo. Non possiamo dimenticare che la compagnia russa Gazprom Neft possiede la quota di maggioranza della multinazionale serba NIS, una delle principali compagnie petrolifere e di gas naturale. Inoltre, come si può leggere in una dichiarazione rilasciata dall’ufficio stampa di Vučić, fra i due Paesi verranno avviati al più presto degli incontri per discutere un nuovo contratto in merito al gas russo, dato che il termine di scadenza dell’accordo precedente è previsto per il 31 maggio 2022. Dal punto di vista politico-militare la Russia è sempre stata alleata della Serbia nella sua battaglia contro l’indipendenza del Kosovo e ciò ha ostacolato qualsiasi risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, per via del  potere di veto da parte di Mosca. In più, a livello propagandistica, la retorica del SNS si fonda sui valori della religione cristiano-ortodossa e sulla sua vicinanza alla Chiesa di Mosca. Questi fili rossi che stringono la Serbia con la Russia non sono stati recisi neanche dopo l’invasione dell’Ucraina: molti media governativi hanno mandato in onda notizie filorusse e Belgrado è stata l’unica capitale europea ad ospitare una manifestazione a sostegno dell’intervento russo. Il presidente Vučić ha approfittato di questa situazione per la propria campagna elettorale proponendo come slogan: “Pace. Stabilità. Vučić.”, sfruttando il ricordo dei bombardamenti NATO su Belgrado per ottenere i voti di coloro che si definiscono anti-occidentali e presentandosi come “l’uomo forte” della situazione. Il tutto ha prodotto come risultato la mancata adozione di sanzioni serbe contro la Russia, nonostante il voto favorevole all’Assemblea Generale dell’ONU di una risoluzione di condanna dell’invasione in territorio ucraino.

Tuttavia, la Serbia non guarda solo Mosca ma anche verso un futuro all’interno dell’Unione Europea, rendendo più complicata la sua posizione. Negli scorsi anni, l’UE ha sorvolato sulla commistione sempre più evidente tra politica serba e criminalità organizzata ma al contempo la Serbia è stata riconosciuta come Paese “front-runner” nel progetto di integrazione balcanica. Ora la situazione potrebbe cambiare. In seguito allo sviluppo della guerra in Ucraina e alla presenza di alcuni “avamposti” di Putin come Orban, recentemente rieletto in Ungheria, e la presenza di partiti sovranisti finanziati da oligarchi russi, Bruxelles potrebbe non essere più così tollerante verso questa doppia politica serba e richiedere una presa di distanza rispetto alla Russia. 

La vera posta in gioco rimane la “polveriera balcanica”: una riconferma della destra nazionalista potrebbe far crescere i timori nei Paesi confinanti. I leader balcanici hanno chiesto di accelerare le procedure di ammissione alla NATO e all’UE per timore di un effetto “spillover” nella macroregione e il Kosovo ha mandato una richiesta per diventare membro del Consiglio d’Europa. La principale preoccupazione è che Putin utilizzi la propria pressione sulla Serbia per destabilizzare l’area balcanica, creando così un nuovo fronte europeo. Per quanto riguarda il Kosovo, l’avvicinarsi delle elezioni ha nuovamente sollevato il  problema della minoranza serba presente nel Paese. Il capo del governo Albin Kurti ha negato loro il permesso di voto con la scusa di voler difendere la propria sovranità territoriale, costringendo la parte di popolazione serba a recarsi in quattro località del sud della Serbia per poter votare. Questa decisione è stata fortemente criticata dai Paesi Occidentali. Edward P.Joseph, ex vicecapo statunitense della missione OSCE in Kosovo fra il 2010 e il 2012, ha dichiarato che con questa mossa Kurti ha fatto un regalo a Vučić offrendogli materiale per la sua retorica nazionalista e fornendo allo stesso tempo un pretesto a quei Paesi NATO che non vogliono ancora riconoscere l’indipendenza del Kosovo. Ciononostante, la minaccia più pericolosa resta la Bosnia-Erzegovina. Le tensioni tra Sarajevo e Banja Luka stanno portando alla più grande crisi interna dai tempi degli Accordi di Dayton. La minaccia di Dodik, membro serbo della presidenza tripartita della Bosnia-Erzegovina, di rimuovere la partecipazione dei cittadini serbi al comune sistema fiscale e giudiziario e all’esercito nazionale, fa risorgere i timori secessionisti. Queste paure sono cresciute in seguito all’invasione ucraina e alla telefonata compiuta da Lavrov, ministro degli esteri russo a Dodik nel mese di marzo. Inoltre nell’ultimo periodo Belgrado ha aumentato l’acquisto di missili anticarro russi. Lo scopo è cederli alla Repubblica Srpska e questa vendita verrà sicuramente ripagata politicamente. In risposta l’UE ha già raddoppiato il proprio contingente in Bosnia (EUFOR) e in Kosovo (EULEX).  

Negli anni ’90 Milosevic ha mostrato all’Europa che si possono commettere ancora orrori in nome del nazionalismo. Putin lo sta dimostrando oggi in Ucraina. Serbia e Russia hanno condiviso per molto tempo la stessa retorica nazionalista che prevede la costruzione di un Grande Stato, composto da una base etnica omogenea, con il compito di riunificarsi con le proprie minoranze in opposizione alle nazioni “artificiali” e meticcie. I timori odierni di Kosovo e Bosnia evidenziano come le ferite aperte da questo nazionalismo aggressivo siano ancora sanguinanti. Inoltre la riconferma di Vučić consolida la Serbia come un altro Stato presente nell’elenco dei Paesi con tendenze nazionaliste autoritarie. Il rischio è che diventi il “cavallo di Troia” di Putin nei Balcani. Tuttavia resta ancora una speranza: l’ingresso dell’opposizione in Parlamento può permettere l’apertura di un piccolo margine di rinnovamento. Per continuare il proprio percorso europeo la Serbia deve scegliere da che parte stare. La politica anfibia di Vučić non potrà durare in eterno e prima o poi dovrà sciogliere le proprie contraddizioni.

 

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