L’invasione russa in Ucraina ha conquistato gran parte dell’attenzione mediatica globale. Nel resto del mondo, però, si combattono altre battaglie, diplomatiche e non, fondamentali per il futuro delle relazioni internazionali e, con tutta probabilità, anche per il destino del conflitto in atto nel territorio dell’Europa orientale. In particolare, a tenere banco sono le crescenti tensioni derivanti dalla disputa per il controllo dell’Oceano Pacifico, che vede come protagonisti Stati Uniti e Cina. Le due superpotenze, attraverso accordi e alleanze, hanno deciso di contendersi l’influenza sugli Stati della regione, indipendentemente dalla dimensione degli stessi.
Esempio emblematico è dato dal caso di Tonga, nazione costituita da oltre 170 isole distribuite a Sud dell’Oceano Pacifico. Il piccolo regno polinesiano è stato duramente colpito dall’eruzione di un vulcano sottomarino, avvenuta il 15 gennaio di quest’anno e dal conseguente tsunami: oltre agli ingenti danni materiali alle infrastrutture, sono stati compromessi anche i cavi sottomarini che permettevano la comunicazione con il resto del mondo – lasciando il telefono satellitare come unico mezzo di collegamento con l’esterno. Secondo la NASA, la forza esplosiva dell’evento è stata almeno 500 volte superiore a quella della bomba atomica sganciata ad Hiroshima nell’agosto del 1945.
Data la portata del disastro, numerosi Stati si sono mossi per garantire aiuti e sostegno a Tonga, attualmente in stato di emergenza.
Tra i primi a muoversi c’è la Cina che, attraverso le Forze armate della Repubblica Popolare Cinese (EPL), ha fornito al Paese materiali di soccorso utili alla ricostruzione, oltre a stanziare – come sottolinea Limes – 800 mila dollari di fondi per quella che è una delle c.d. ‘Isole degli amici’, cui si aggiungono i 500 mila dollari donati dalla Croce Rossa cinese. Anche se la cifra totale è inferiore, attualmente, a quella annunciata dagli Stati Uniti, gli aiuti sono arrivati nel ‘momento giusto’, così come dichiarato dall’ambasciatore cinese a Tonga, Cao Xiaolin. Di fatto, la Cina ha giocato d’anticipo rispetto al governo statunitense, che aveva previsto la visita del Segretario di Stato Antony Blinken per il giorno successivo.

Contemporaneamente, a Melbourne si riuniva il Quadrilateral Security Dialogue (Quad), composto dai Ministri degli Esteri di Stati Uniti, Australia, Giappone e India e nel quale si è ribadita l’importanza di un Indo-Pacifico libero dal controllo cinese. Pechino è infatti molto attiva nella regione e, attraverso ingenti investimenti economici, riscuote la fiducia e la fedeltà di numerosi Paesi: non è un caso la partecipazione alla Belt and Road Initiative (Bri) da parte della stessa Tonga, oltre all’adesione di Nuova Zelanda, Papua Nuova Guinea, Vanuatu, Kiribati, Isole Salomone, Isole Cook e Fiji – nazioni che i cinesi hanno deciso di assistere anche attraverso un sostegno militare, come dimostrano gli equipaggiamenti antisommossa forniti alle Isole Salomone, utili a contrastare le recenti proteste contro il governo.
Inoltre, la Cina ha reso nota l’intenzione di aiutare Tonga anche nella ricostruzione dei sopracitati cavi sottomarini in seguito al loro danneggiamento.
La forza del piano cinese ha già avuto modo di manifestarsi: molti Paesi sono stati persuasi a tal punto da ritirare il riconoscimento a Taiwan, schierandosi dunque dalla parte del governo di Xi Jinping. Ma la potenza della strategia geopolitica di Pechino non si ferma qui: la stazione satellitare cinese presente a Kiribati, nella quale si studiano i test missilistici statunitensi, sembra vicina ad un nuovo utilizzo – dopo la chiusura nel 2003 – con il riallacciamento dei rapporti tra il governo dell’arcipelago e la Repubblica Popolare Cinese cominciato nel 2019. Pechino sta inoltre valutando la costruzione di nuovi avamposti all’estero sui territori del Pacifico, utilizzando la propria influenza per egemonizzare l’intera area. Un esempio concreto è stato il progetto, mai effettivamente concluso, che prevedeva la costruzione di un’intera città ‘made in China’ in Papua Nuova Guinea. I lavori avrebbero ricalcato ciò che già è stato fatto in alcune zone del continente africano: secondo quanto riportato da Focus, nel 2015 il gigante asiatico e l’Angola hanno stretto accordi inerenti a concessioni petrolifere e investimenti immobiliari. In un lasso di tempo di tre anni, il China International Trust and Investment Company (CITIC Group) ha costruito un’intera città, chiamata Nova Cidade de Kilamba, in grado di accogliere 500.000 abitanti in circa 750 palazzi. L’investimento, costato circa 3 miliardi di euro, dovrebbe permettere un’immigrazione massiccia di lavoratori cinesi in Africa, con l’intenzione di trasformare il continente in una sorta di ‘satellite’ per l’esportazione di risorse.

Alcuni Stati del Pacifico si sono detti preoccupati della situazione e hanno agito di conseguenza: la Nuova Zelanda, ad esempio, ha cominciato a prendere le distanze dalla Cina, rendendosi propensa persino all’entrata nell’AUKUS, ovvero il nuovo patto di sicurezza trilaterale tra Stati Uniti, Australia e Regno Unito – nato in una palese accezione anti-cinese.
Anche l’Australia ha deciso di rendersi maggiormente protagonista nella contesa, appoggiando con maggiore convinzione le mosse di Washington, per timore che la parte dell’Oceania, adiacente ad essa, cada completamente in mano a Pechino.
Sebbene lo stesso Blinken abbia affermato che uno scontro con la Cina ‘non è inevitabile’, quest’ultima non pare intenzionata a ridimensionare le proprie ambizioni e si prepara a negoziare con Tonga, indebitata con Export-Import Bank of China per una cifra pari a circa 108 milioni di dollari – ovvero il 25% del proprio PIL – per la creazione di postazioni sull’isola.
In sintesi, l’azione di contrasto alle mire espansionistiche cinesi passa anche per Tonga, in un primo braccio di ferro che rischia di danneggiare quasi unicamente i piccoli Paesi della regione, già fortemente provati dagli effetti del cambiamento climatico e considerati unicamente come punti geopoliticamente strategici da sfruttare, ridotti a passivi oggetti del desiderio di almeno due delle più grandi potenze a livello globale.
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