L’invasione russa dell’Ucraina ha suscitato una forte risposta diplomatica da parte dei Paesi del mondo. Anche l’America Latina ha preso posizione: come prevedibile Nicaragua, Cuba e Venezuela si sono schierati al fianco di Putin in virtù dei legami storici e della protezione che Mosca ha garantito loro in passato. I leader di questi tre Paesi credono che gli Stati Uniti siano la causa di questa guerra e di conseguenza la Russia si stia solo “difendendo” dalle provocazioni occidentali.
In questo clima di tensione si sta assistendo a un interessante quanto inaspettata riapertura del dialogo tra Washington e Caracas a causa di un tema ben preciso: allentare le sanzioni sul petrolio venezuelano per far fronte alla crisi energetica.
Il Venezuela beneficia della più grande riserva di petrolio al mondo estesa su un’area di 54 mila chilometri quadrati. L’economia venezuelana si regge solo sull’industria petrolchimica tanto che le vendite di petrolio rappresentano il 99% dei proventi delle esportazioni e circa un quarto del prodotto interno lordo (PIL). Il controllo e la gestione di questa risorsa è centrale dal punto di vista politico: il governo di Maduro ha portato avanti politiche di lottizzazione dei vertici della compagnia petrolifera statale venezuelana PDVSA per ottenere il controllo dell’azienda.

Il Venezuela ha visto gli introiti provenienti dalla vendita del petrolio diminuire a partire dal 2018, quando gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni per punire le elezioni truccate che hanno confermato Maduro alla guida del Paese. Queste misure sono state inasprite durante la presidenza Trump che aveva riconosciuto, assieme ad altri 60 Paesi, il capo dell’Assemblea Nazionale Juan Guaidó come reale presidente del Venezuela. Questo nuovo pacchetto di sanzioni impedisce tutt’oggi al Paese di commerciare il suo greggio sul mercato statunitense bloccando il settore produttivo più redditizio dell’economia statale. Negli ultimi anni, il governo di Maduro è riuscito comunque a sopravvivere grazie all’appoggio di partner come Cina, Cuba, Iran, Russia e Turchia, i quali hanno tenuto vivo l’export venezuelano.
La crisi energetica provocata dal conflitto in Ucraina ha portato ad un riavvicinamento di Washington e Caracas: dopo quasi quattro anni dall’ultimo colloquio, gli Stati Uniti hanno inviato in Venezuela una delegazione guidata da Juan Gonzalez, consigliere speciale per gli affari in America Latina, per riaprire un canale di dialogo.
In seguito all’incontro, Maduro ha rilasciato dichiarazioni che sembrano attestare una maggior distanza da Mosca e ha confermato di aver parlato con gli americani delle forniture petrolifere dichiarando che “la PDVSA è pronta a produrre da uno a tre milioni di barili di petrolio al giorno, se necessario”. A questo si aggiungono notizie incoraggianti anche sul fronte interno per via dell’intenzione di Palacio Miraflores di riprendere i colloqui con l’opposizione e di rilasciare due cittadini americani detenuti da mesi dalle autorità venezuelane.
Per il momento si tratta solo di parole al vento e siamo ben lontani dalla soluzione. Per quanto riguarda la crisi energetica, gli Stati Uniti hanno calcolato che prima delle sanzioni acquistavano una media di 650.000 barili di petrolio venezuelano al giorno, una cifra simile all’ammontare delle forniture russe oggi sospese. Tuttavia, come sottolineato da Igor Hernandez, le sanzioni hanno peggiorato la produzione di petrolio venezuelano. Basti pensare che prima del 2019 la PDVSA era in grado di produrre oltre 1 milione di barili al giorno contro le 600 mila del 2021. Anche alla luce dello stretto legame della società con banche russe, oggi sanzionate, l’analista Alexandre Baradez ha notato che “gli Stati Uniti dovrebbero aiutare a ricostruire l’industria petrolifera venezuelana”, scenario possibile solo a seguito della riapertura delle relazioni diplomatiche fra i due Paesi.
Questo scenario è reso ancora più complicato dal fatto che il Venezuela resterà fedele alla sua strategia di politica estera: i rapporti con Mosca restano solidi, come testimoniato dai più di 200 accordi siglati tra i due Paesi durante la presidenza di Chavez e Maduro.

A questo si aggiunge anche la necessità di Washington di non creare tensioni con i suoi principali partner latinoamericani: come analizzato dal Ministro dell’Energia della Colombia, Paese partner della NATO, “se hai appena bandito il petrolio da quello che chiamano il dittatore russo, è difficile spiegare perché comprerai petrolio dal dittatore venezuelano“.