Durante la sua visita di fine ottobre a Roma per prendere parte al G20, il Presidente degli Stati Uniti d’America, Joe Biden, ha avuto l’occasione di incontrare anche Papa Francesco nella Città del Vaticano. La “scelta strategica” di questo momento coincide con il tentativo di riconciliazione con l’elettorato cattolico americano e dimostra un maggiore dialogo (e riavvicinamento) tra la Casa Bianca e la Santa Sede dopo gli anni trumpiani. Tra i temi affrontati pare ci sia stata la Cina (su cui la visione rimane differente), il cambiamento climatico e altri argomenti legati alla comunità cattolica statunitense, prima fra tutte, l’aborto.
Recentemente, per andare incontro alle indicazioni dell’elettorato più liberal del Partito Democratico, Biden ha dimostrato una certa propensione ad accogliere alcune aperture sulla pratica dell’aborto, da sempre al centro del dibattito pubblico negli Stati Uniti, specie durante le campagne elettorali presidenziali. Si tratta di una sorta di tema obbligato su cui tutti i candidati, dalle votazioni per le primarie in avanti, devono esprimere la propria opinione in modo più o meno costante nel tempo, recitando il copione del proprio schieramento politico. Si aggiunga che, il supporto di Biden nei confronti del diritto all’aborto, coincide con un momento storico in cui i cardinali e i vescovi cattolici americani stanno guidando la “fronda più conservatrice e tradizionalista” interna alla Chiesa, il cui esponente più importante è il cardinale Raymond Leo Burke.

Lo scontro più feroce sul tema aborto si è però innescato nel mese di maggio, all’indomani delle elezioni presidenziali, quando lo Stato del Texas (a guida rpubblicana) ha deciso di introdurre una legge molto restrittiva sull’aborto che vieta l’interruzione volontaria di gravidanza dopo 6 settimane di gestazione. Un lasso di tempo davvero breve, durante il quale spesso le donne non si accorgono nemmeno di essere incinte. Inoltre, la legge prevede delle eccezioni in caso di emergenze sanitarie, ma non per le gravidanze derivanti da stupro o incesto. Occorre ricordare come ai singoli Stati spetti l’autonomia legislativa sulla maggioranza delle questioni interne, a meno che una normativa federale si esprima esplicitamente in merito.
Nell’ordinamento americano non esiste una vera e propria legge in materia d’aborto, ma si adotta l’esito della nota sentenza della Corte Suprema, Roe v. Wade del 1973, con la quale, di fatto, si legalizzò tale pratica a livello federale. Tuttavia, i singoli Stati possono introdurre delle normative – valide unicamente nel territorio di loro giurisdizione – che limitino questo diritto. Negli ultimi mesi, a seguito della vittoria democratica, molti Stati a guida repubblicana (e tradizionalmente “meno progressisti” in materia), hanno introdotto delle restrizioni alla pratica dell’aborto. Probabilmente, la causa è da ricercarsi nella decisione di Joe Biden di reintrodurre l’erogazione di fondi federali alle organizzazioni non governative che difendono il diritto all’aborto e forniscono informazioni a riguardo. L’amministrazione Reagan fu la prima a concepire queste restrizioni nel 1985 con il regolamento “Mexico City Policy”, puntualmente abolito dai presidenti democratici (Clinton e Obama) e ripristinato dai repubblicani (George W. Bush e Trump)
Perciò dagli anni ‘90, il tema dell’aborto è un grande classico del dibattito pre-elettorale tra i due candidati alla presidenza, nonché un potenziale campo minato delle elezioni primarie, tanto tra i Repubblicani, quanto tra i Democratici. La discussione sull’aborto è stata spesso fonte di “scivoloni” mediatici dei candidati, oppure il tema-chiave per intuire se la posizione del candidato fosse più progressista o conservatrice.
Ma come testimonia quest’anno, la politicizzazione dell’aborto non è appannaggio solamente degli esponenti di spicco di questo o quel partito americano, ma anche degli organi giuridici preposti al riscontro della coerenza tra nuove norme e sentenze precedenti, secondo il sistema di common-law vigente nel Paese. Infatti, dopo la sospensione della legge introdotta in Texas nel maggio scorso, ai primi di settembre si è ottenuta la decisione della Corte Suprema federale di non bloccare la legge texana. La decisione è stata vista come un esempio di scarsa imparzialità della Corte, riscontrata già in passato per via del sistema di nomina dei giudici, che spetta al Presidente in carica ogniqualvolta uno dei nove seggi disponibili resti vacante per decesso o dimissioni del giudice. La nomina del nuovo membro della Corte dev’essere poi ratificata dal Senato.
La sostituzione di un membro della Corte non è affatto raro e, durante i più recenti mandati presidenziali, i giudici nominati dal Presidente e confermati o bocciati dal Senato sono stati in media due (per mandato). Si comprende molto bene come, per ottenere una maggioranza assoluta su un numero di votanti relativamente basso, la semplice nomina di uno o più membri da parte del partito politico che detiene la maggioranza in Senato ed esprime la Presidenza possa spostare gli equilibri all’interno della Corte. Benché i giudici non abbiano mai militato politicamente nei principali schieramenti, la loro candidatura viene spesso attentamente valutata dai rispettivi establishment in base alle sentenze emesse durante la loro carriera e, di conseguenza, le posizioni espresse su alcuni temi etici “caldi”.

Le azioni di un potenziale giudice della Corte Suprema sul tema dell’aborto sono attentamente vagliate prima della nomina. Un interessante esempio potrebbe essere la più recente delle nomine in quota Repubblicana, fortemente voluta da Trump in sostituzione della giudice liberal Ginsburg: Amy Coney Barrett. Si tratta del membro più giovane di sempre, oltre che discepola di Antonin Scalia, controverso giudice della Corte Suprema dal 1986, noto per le sue posizioni in merito all’interpretazione del II emendamento e per l’appoggio a Dick Cheney, fautore della teoria dell’“Esecutivo Unitario”. Ma l’elemento che contraddistingue la giudice Barrett è la sua appartenenza al Movimento carismatico cristiano-cattolico, nato negli anni Sessanta in America e più recentemente elogiato da Papa Francesco.
I timori espressi all’atto della nomina della Barrett, nell’ottobre 2020, si sono concretizzati nel pronunciamento della Corte Suprema emesso in settembre poiché, sui temi etici, la (presunta) laicità e la suddivisione dei poteri nella democrazia libera americana sono sembrate venir meno. Infatti, respingendo il ricorso che vorrebbe bloccare la legge texana, la Corte Suprema ha mostrato un’eccessiva attenzione al dibattito politico e alle fazioni partitiche, finendo con l’autorizzare una legge statale che molti potrebbero trovare regressiva e inattuale.
Ciò nonostante, un giudice federale di Austin (Texas), in seguito ai ricorsi di numerose associazioni pro-aborto, ha deciso di bloccare temporaneamente l’applicazione della legge restrittiva, e rimandare alla Corte Suprema federale la legittimità della sua applicazione. Tuttavia, la Corte d’Appello del Texas ha subito reintrodotto la legge (seppur temporaneamente), suscitando numerose proteste. Alla Corte Suprema di Washington verrà quindi chiesto di esprimesri nuovamente sul tema ma, nel frattempo, altri giudici “locali” potrebbero non accogliere favorevolmente i ricorsi di coloro che vedono i propri “diritti fondamentali” lesi da nuove leggi anti-aborto, specie negli Stati del Sud o a maggioranza repubblicana.
Inevitabilmente, questo rischia di essere un precedente che potrebbe portare ad una sempre maggiore politicizzazione di temi riguardanti la salute delle persone, sia nelle sentenze, sia nelle leggi future.
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