L’Australia ha riaperto le frontiere internazionali ai titolari di visto dal primo dicembre. Dopo mesi di pandemia da Covid-19, l’allentamento delle restrizioni si spera possa costituire un valido sostegno alla ripresa economica. Il periodo di quasi due anni di chiusura dei confini, e il conseguente blocco dei flussi migratori in entrata e uscita, infatti, hanno messo in crisi numerosi settori economici a causa della mancanza di lavoratori da poter occupare. L’annuncio dell’attuale primo ministro Scott Morrison risale al 22 novembre 2021: secondo le nuove disposizioni, i titolari di visto per lavoro o per studio e i rifugiati che hanno completato il ciclo vaccinale potranno entrare in Australia senza la richiesta di una speciale “exemption”, un’esenzione da richiedere che permette gli spostamenti internazionali. Si stima che in tutto siano 235.000 coloro che potranno tornare in Australia grazie all’apertura dei confini. Allo stesso modo, i non cittadini che durante il periodo di pandemia sono dovuti rimanere nel Paese potranno espatriare e in seguito ritornare senza dover seguire procedure speciali.

Quest’ultima categoria rappresenta coloro che si trovavano in Australia in possesso di un visto temporaneo al momento della chiusura delle frontiere. Con le politiche decise nel periodo di pandemia, per loro non era possibile lasciare il Paese per brevi periodi con la certezza di poter tornare, trovandosi di fatto davanti alla scelta tra restare senza poter rincontrare amici e parenti dai luoghi di origine, o partire per i Paesi natali senza la certezza di poter successivamente tornare indietro alla loro vita in Australia. Una petizione era stata lanciata per cercare di modificare la rigidità delle regole imposte dal governo australiano, definite “discriminatorie” poiché indirizzate soprattutto ad una categoria di persone, i non cittadini, che con l’Australia hanno però legami paragonabili a quelli dei cittadini: vivono, lavorano, partecipano alla società e pagano le tasse.
Il contributo dei non cittadini residenti in Australia, che vivono e lavorano per un periodo o permanentemente nel Paese, non è trascurabile e avviene in settori diversificati tra loro: da quelli che necessitano la presenza di personale altamente qualificato a quelli per cui non si ricerca una formazione specifica e in cui spesso sono impiegati i lavoratori casuali, per periodi a breve termine. Nel 2019, circa il 30% dei residenti sul suolo australiano era nato oltremare e il 68% di loro era occupato. Un rapporto pubblicato dall’agenzia Fairfax Media indicava che il gettito fiscale dei lavoratori immigrati era superiore alle spese pubbliche necessarie per i servizi a loro rivolti, rendendoli una risorsa per il Paese. Con l’assenza di una larga fetta dei lavoratori stranieri, la dipendenza dell’economia australiana dall’impiego della popolazione immigrata si è manifestata improvvisamente al governo e ai cittadini.

Tra i settori che hanno particolarmente sofferto la carenza di persone da poter assumere vi è quello agricolo, in cui l’80% degli impiegati sono solitamente giovani provenienti dall’estero in cerca di “casual job”, lavori occasionali che permettono loro di restare in Australia tramite il Working Holiday Visa. Nella primavera del 2021, solo 45mila persone erano disponibili per la stagione – ovvero un quarto di quelle solitamente presenti sul territorio – fatto che ha reso pressoché impossibile la raccolta e la vendita di tutti i prodotti agricoli con le giuste tempistiche. Ugualmente colpito dalla carenza di personale è il settore dell’ospitalità, in difficoltà adesso che i cittadini ricominciano a uscire a pieno ritmo, tanto che alcuni servizi si trovano a non riuscire a coprire tutti i turni con i dipendenti a disposizione. Un caso d’effetto è quello di un ristorante di Sydney, dove il salario dei “lavapiatti” è salito a 90 dollari all’ora a causa della difficoltà nel trovare personale.
La carenza colpisce anche i settori che richiedono lavoratori altamente qualificati che le aziende devono cercare tra chi arriva dall’estero. Le proposte di lavoro sono aumentate del 54% e le aziende, per poter attrarre figure professionali con le competenze specifiche a loro utili e per non far andare via i dipendenti già assunti, hanno aumentato i salari del 15%. Secondo il reclutatore Robert Half, l’aumento salariale potrebbe invece raggiungere il 20% per chi si occupa di settori al momento considerati essenziali, relativi al campo informatico e tecnologico.
A questo proposito, l’economista e professore all’Università di Sydney Tim Harcourt individua nell’eccessivo affidamento nei confronti dei lavoratori provenienti dall’estero una causa delle difficoltà relative al mercato del lavoro in Australia. Secondo lo studioso, la soluzione si dovrebbe trovare in un maggior investimento in capitale umano: lo Stato dovrebbe garantire la possibilità di formazione sul territorio e pertanto un impegno maggiore nel campo dell’educazione sarebbe necessario per creare e mantenere all’interno del Paese i lavoratori con le competenze richieste dalle aziende.
La riflessione dell’economista australiano si inserisce in un periodo che per l’Isola del Pacifico è di transizione. Nella gestione del parziale ritorno alla situazione antecedente all’inizio della pandemia, il governo si trova oggi a dover necessariamente considerare la situazione creatasi nel frattempo, cogliendo l’occasione per pensare nuove strategie da applicare nel mercato del lavoro. Ad oggi, però, la ripresa economica sembra ancora essere affidata innanzitutto alla riapertura internazionale, la quale rappresenta “una pietra miliare nel percorso”, come dichiarato dal primo ministro Morrison nel riferirsi al ritorno di “studenti e lavoratori qualificati” nel Paese.
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