Lunedì 15 novembre le autorità cubane hanno impedito lo svolgimento della “Marcha Cívica por el cambio”, promossa dalle forze di opposizione che si celano dietro l’etichetta Archipiélago , una manifestazione ideata per richiedere maggiori libertà e il rilascio dei prigionieri politici. Il governo, guidato da Miguel Diaz-Canel, memore delle proteste dello scorso luglio, ha negato l’autorizzazione alla manifestazione e ha lanciato una campagna mediatica volta a screditare gli organizzatori, sostenendo che l’evento fosse un tentativo degli Stati Uniti di rovesciare il regime attraverso manovre eversive.

Attraverso una serie di controlli, le forze dell’ordine hanno impedito ai maggiori attivisti, giornalisti e organizzatori di lasciare le proprie case, confinandoli nei loro appartamenti, presidiando le strade. Così è avvenuto a Yunior Garcia Aguilera, coordinatore del gruppo Archipielago, al quale è stato impedito qualsiasi contatto con l’esterno attraverso il taglio della rete telefonica e connessione internet inoltre, una grande bandiera cubana è stata posta a coprire il cartello che l’artista aveva affisso alla finestra in cui aveva scritto “la mia casa è bloccata”. Tali azioni intimidatorie, di fatto, hanno provocato l’annullamento della marcia, nella giornata in cui il paese ha riaperto scuole, attività economiche e ricominciato ad accogliere i turisti dall’estero dopo un lungo lockdown.
Dato per scomparso e irreperibile per alcuni giorni, García ha lasciato il paese, imbarcandosi su un volo Iberia diretto per Madrid insieme alla moglie. Al leader della protesta è stato concesso un visto turistico di tre mesi limitato alla Spagna. Fonti diplomatiche spagnole hanno spiegato che il viaggio è stato una decisione dell’oppositore con il benestare delle autorità cubane. Notizia confermata attraverso Facebook dallo stesso García, il quale, in una successiva conferenza stampa, ha ribadito l’impegno per il suo paese e affermato che la decisione di lasciare l’isola è stata generata dalla brutale pressione subita dalla polizia nelle settimane precedenti alle proteste.

La percezione di alcuni, secondo cui il regime fosse in preda al panico e sul punto di crollare, sembrano essere state smentite. In seguito alle massicce proteste di luglio, infatti, Biden aveva definito Cuba uno “Stato fallito” che reprime i suoi cittadini. Tuttavia, la rapidità del regime nell’impedire la marcia, dimostra un fermo controllo sul partito, sulla burocrazia e sull’apparato di sicurezza cubano. La repressione ha riacceso lo scontro tra Washington e L’Avana con il Segretario di Stato Blinken che si è affrettato a condannare le “tattiche intimidatorie” di Cuba, invitando il governo a consentire alle persone di riunirsi liberamente senza timore di rappresaglie. Dal canto suo, il Ministro degli Esteri cubano, Bruno Rodríguez, ha replicato ammonendo gli Stati Uniti di rimanere fuori dagli affari cubani una volta per tutte.
Secondo l’analista cubano ed ex diplomatico Carlos Alzugaray, il fallimento della manifestazione è dipeso anche da alcuni errori organizzativi. Il giorno fissato è stato annunciato con largo anticipo, dando tempo al governo di preparare le contromisure necessarie e presidiare le abitazioni dei principali leader. Inoltre, la manifestazione è coincisa con il giorno delle riaperture e, dunque, con una maggiore attenzione da parte delle autorità al fine di evitare disordini e proteste. Nonostante gli errori, però, la scarsa partecipazione popolare pare non dipendere unicamente dalle intimidazioni perpetrate dalle autorità. Questa, infatti, segnala come i movimenti di protesta abbiano perso parte della spinta popolare che avevano a luglio, costringendo García e gli altri leader a ripensare le modalità con le quali sovvertire un regime in piedi da più di sei decenni.