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Lava Jato, la Tangentopoli che ha sconvolto il Brasile

Mattia FossatibyMattia Fossati
Novembre 7, 2021
in Speciale
Reading Time: 5min read
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Lava Jato, la Tangentopoli che ha sconvolto il Brasile

L’inchiesta Mani Pulite ha cambiato la storia d’Italia. Tanto ha fatto l’operazione Lava Jato in Brasile: 554 persone indagate, oltre 258 condanne, pene che superano complessivamente i 3 mila anni di carcere e 4 miliardi di reais recuperati dalle forze dell’ordine. Il sistema scoperchiato dai magistrati del pool di Curitiba coinvolgeva tutta la politica verdeoro da destra a sinistra. Eppure, a 7 anni dall’inizio delle indagini, dal dibattito pubblico sulla Lava Jato sono scomparse le tangenti e si è iniziato a parlare solo delle presunte violazioni commesse dagli investigatori. Ecco perché era necessario rimettere in fila i fatti, lasciando da parte la propria identità politica e le teorie del complotto. 

Questo è il contenuto del libro ‘Lava Jato – La vera storia dell’inchiesta che ha fatto tremare il Brasile’, da giovedì 28 ottobre disponibile in tutte le librerie d’Italia.

Il distributore di benzina

Tutto iniziò il 17 marzo 2014 nell’ufficio cambio del ‘Posto da Torre’, una stazione di servizio situata a meno di due chilometri dal Congresso di Brasilia. Dopo aver fermato un camion nella periferia di São Paulo che stava trasportando 653 kg di cocaina, gli investigatori risalirono a questo distributore di benzina, considerato la principale lavanderia che una banda di narcos utilizzava per riciclare il denaro frutto del traffico di droga. Grazie ad un’intercettazione telefonica, la Policia Federal scoprì che al primo piano del ‘Posto da Torre’ vi era anche l’ufficio di Alberto Youssef, un personaggio che già nel 2003 era stato coinvolto in uno scandalo legato al trasferimento di grosse somme di denaro all’estero (caso Banestado). Nelle email di Youssef, i magistrati ritrovarono una fattura per un Land Rover Evoque intestata a Paulo Roberto Costa, ex direttore dell’ufficio forniture della Petrobras, la principale azienda petrolifera del Paese. Finiti entrambi in manette, non ci misero molto a confessare. Costa e Youssef firmarono un accordo di collaborazione e svelarono alle autorità l’esistenza di un cartello di imprese che, grazie a maxi tangenti pagate alla classe politica, si spartiva tutti gli appalti della Petrobras.

Il meccanismo della corruzione

Le confessioni di Costa e Youssef contribuirono all’effetto domino. Chi sapeva di avere fatto parte di quel meccanismo corruttivo, si precipitò dai magistrati a confessare prima di poter essere ‘venduto’ da qualcun altro. È lo stesso sistema che decretò il successo dell’indagine Mani Pulite, anche per la Lava Jato i risultati sono stati i medesimi: in poco più di due anni di lavoro i magistrati risalirono la catena di comando del sistema Petrobras. Dai deputati statali si passò ai ministri e dai funzionari delle imprese del cartello si raggiunsero i più importanti industriali del Paese. Finirono in carcere decine di esponenti della classe dirigente verdeoro, come Marcelo Odebrecht, considerato il principe dell’imprenditoria in Brasile, oppure João Vaccari, tesoriere del Partido dos Trabalhadores-PT. Le confessioni dei politici coinvolti nello scandalo aiutarono il pool di Curitiba a raggiungere il vertice della piramide: ben cinque ex Presidente della Repubblica finirono sotto inchiesta. La ciliegina sulla torta fu il processo intentato contro l’ex capo di Stato Lula, sotterrato da una sfilza di accuse (che in parte poi verranno archiviate). Quando l’8 aprile 2018 venne condotto nelle celle di sicurezza della PF di Curitiba, milioni di cittadini brasiliani pensarono che il fenomeno della corruzione in Brasile fosse stato eliminato una volta per tutta. Una vana illusione.

Il governo Bolsonaro 

Sempre più screditato dagli scandali di corruzione, il PT perse rovinosamente le elezioni presidenziali del 2018. A trionfare invece fu Jair Bolsonaro, il candidato dell’ultradestra brasiliana che promise nel corso di tutta la campagna elettorale appoggio incondizionato ai procuratori del pool ‘Lava Jato’. Come primo atto da nuovo Capo di Stato, Bolsonaro nominò Sergio Moro (giudice simbolo della lotta contro la corruzione) ministro della giustizia del suo governo. La nuova amministrazione brasiliana non sembrò essere molto interessata a fermare le tangenti e proprio per questo buona parte delle leggi proposte da Moro vennero affossate dal Congresso. Dall’altro canto, come nuovo Procuratore Generale della Repubblica, Bolsonaro scelse Augusto Aras, il magistrato che più osteggiava il lavoro del pool di Curitiba. L’indagine Lava Jato iniziò così ad evaporare, tra maxi assoluzioni da parte della Corte Suprema e l’approvazione di leggi per ‘salvare’ i politici coinvolti nell’inchiesta. Prima del colpo finale.

Sergio Moro fu messo alla porta da Bolsonaro mentre i procuratori del pool vennero screditati agli occhi dell’opinione pubblica con la pubblicazione da parte della rivista The Intercept delle loro chat private. Gran parte della stampa verdeoro interpretò quelle conservazioni come la prova della faziosità dei magistrati, mentre Bolsonaro dichiarò trionfale: “Ho fatto finire la Lava Jato perché non c’è più corruzione nel governo”.

Fu il preludio della fine. Il 3 febbraio 2021, il pool di Curitiba è stato smantellato e sulla lotta contro la corruzione in Brasile è calato il sipario. 

Forse per sempre.

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