La crisi globale dei semiconduttori interessa una vasta gamma di settori produttivi, dall’elettronica all’industria automobilistica, e, almeno per il momento, non sembra essere prossima al termine. Al contrario, stando alle previsioni attuali, lo shortage di semiconduttori potrebbe durare almeno fino alla seconda metà del 2022, secondo la CEO di Advanced Micro Devices Lisa Su, o al 2023, come sostiene anche l’amministratore delegato di STMicroelectronics Jean-Marc Chery.
Alla base della crisi sono riconducibili fattori di varia natura, e nonostante il ruolo centrale della pandemia da SARS-CoV 2, e in particolare dei relativi effetti sul mercato e sulle scelte degli attori economici, non mancano elementi di carattere politico, tra cui le restrizioni adottate dall’amministrazione Trump verso il maggior produttore di chip della Cina, Semiconductor Manufacturing International, che avrebbe spostato la domanda verso la taiwanese TSMC e la sudcoreana Samsung, i cui stabilimenti funzionavano già a pieno regime e non erano in grado di aumentare ulteriormente i ritmi di produzione. Anche la crisi climatica riveste un ruolo nelle dinamiche che hanno portato alla situazione attuale, con la siccità dell’estate scorsa a Taiwan, e il relativo impatto sulla produzione di chip della TSMC, dato che la produzione di semiconduttori implica un consumo di risorse idriche particolarmente elevato. La lavorazione dei chip richiede infatti risciacqui con acqua ultrapura, ricavata da una distillazione di acqua con un rapporto 1:1.5, e la massa di acqua richiesta per la produzione di un solo circuito integrato su una scheda di 30 centimetri richiede intorno agli 8.330 litri di acqua, di cui circa 5.680 di acqua ultrapura.
In risposta alla crisi, i big del settore come Intel, Samsung Electronics e Taiwan Semiconductor Manufacturing Company hanno previsto ingenti investimenti per la costruzione di stabilimenti che permettano un aumento della produzione e un migliore piazzamento sul mercato nel medio periodo, considerato che nell’immediato TSMC pianifica di ricorrere ad un aumento dei prezzi dei propri semiconduttori tra il 10% e il 20%, a fronte di un aumento del costo sostenuto relativo alle materie prime. In generale, le politiche adottate tanto dai produttori di chip quanto dalle principali industrie clienti sono volte ad un tentativo di riduzione di una domanda cui non si riesce a far fronte.

Il settore automotive è tra i più colpiti, con stop forzati, rallentamenti nelle consegne e tagli alla produzione fino al 40% di Toyota, costretta inoltre alla chiusura di alcuni impianti di componentistica in seguito all’aumento dei contagi in alcune zone del sud-est asiatico. D’altro canto la crisi dei semiconduttori origina in parte dall’industria automobilistica, e in particolare da una proiezione fallace relativa alla domanda dei consumatori del 2020, rivelatasi inferiore al volume effettivo delle vendite. In ragione di tale stima, le aziende automobilistiche avevano quindi effettuato ordini minori di semiconduttori ai produttori, che hanno orientato di conseguenza la loro produzione. Tuttavia, ciò che non era stato previsto è che non soltanto la domanda relativa all’automotive sarebbe stata più elevata rispetto alle proiezioni, e sostenuta peraltro dagli incentivi per l’acquisto di veicoli ad alimentazione elettrica – la cui fabbricazione richiede all’incirca il doppio dei semiconduttori necessari per altre tipologie di veicolo – ma che la domanda di semiconduttori sarebbe stata spinta in maniera inedita da una forte crescita della domanda globale di computer e periferiche dovuta all’impiego di didattica e lavoro a distanza su scala, appunto, globale.
Le industrie automotive hanno così subito pesanti ripercussioni. In Italia, rispetto all’ottobre del 2020, il settore automobilistico ha perso circa il 35,7% delle immatricolazioni – che tuttavia risentono anche del termine degli incentivi statali e regionali. Ad aggravare la situazione ha inoltre contribuito una carenza di magnesio, obbligando l’industria delle automobili a una produzione sottodimensionata rispetto alla domanda, nonché ad una riduzione della scontistica concedibile dai rivenditori in maniera da intervenire sui prezzi di fatto non intaccando i prezzi di listino.
In questo contesto critico, dominato da aziende asiatiche – prima tra tutte la TSMC che copre una quota del mercato dei semiconduttori pari al 52%, e fino all’80% per i chip più avanzati – si pone la questione di una forte dipendenza dall’estero nella produzione di questo tipo di prodotti ad alta tecnologia, su cui l’Europa lamenta un pesante ritardo tanto a livello di quantità prodotte e conseguentemente di quote di mercato, quanto a livello più strettamente tecnologico.

La problematica dell’autosufficienza relativa alla fornitura di semiconduttori non è tuttavia una questione puramente europea, ma nel contesto globale il quadro è in realtà più complicato: guardando ai volumi delle vendite i leader del settore restano gli USA con Intel, che tuttavia contano su una manifattura delocalizzata in Asia, mentre la Cina si scopre incapace di soddisfare il proprio stesso fabbisogno e costretta all’importazione, mentre punta all’indipendenza al 70% nella produzione di semiconduttori entro il 2025 e vara un piano quinquennale di investimento in settori strategici – compresa l’industria dei semiconduttori – pari a 1,4 trilioni di dollari.
L’incremento della produzione da parte dell’industria dei chip non è un’opzione percorribile nel breve periodo, non soltanto a causa delle tempistiche di progettazione e produzione, ma anche per le tempistiche e i costi di un aumento repentino della capacità di produzione degli impianti o della loro realizzazione. Nonostante questo, un’ottica più lungimirante suggerisce comunque un investimento in questa direzione, che permetta una relativa indipendenza in grado di bilanciare almeno in parte gli effetti di queste dinamiche, e in cui sembrano muoversi anche aziende europee come STMicroelectronics.
In generale, questa è la direzione presa a livello globale, con un consistente stanziamento di fondi dedicato proprio agli investimenti per lo sviluppo dell’industria dei semiconduttori e nel settore dell’alta tecnologia. Nello specifico, la risposta dell’UE, che ha approvato a fine 2020 un piano di sviluppo digitale che comprende un aumento della produzione interna per passare dall’attuale 10% al 20% della produzione globale ed affinare la tecnologia di produzione, è ancora lungi dall’essere completa. Su questo tema, Draghi ha enfatizzato la necessità di una cooperazione che permetta di comporre un «ecosistema europeo di microchip all’avanguardia». Il premier ha inoltre ribadito il sostegno alla proposta della Commissione di uno European Chips Act per «coordinare investimenti e produzione europei di microchip e circuiti integrati». L’unica chance dell’Europa per affrontare la problematica contingente della crisi e la questione almeno trentennale della dipendenza dall’estero per i semiconduttori è quella di adottare una strategia congiunta ed armonizzata, capace di organizzare la ricerca e lo sviluppo dei Paesi membri dell’Unione per fornire una risposta efficace e coerente.
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