In Yemen, a partire dalla presa di Sana’a nel 2015, lo scontro armato tra Ansar Allah – gruppo armato a guida Houthi sciita -, il governo di Abdrabbuh Mansur Hadi – in carica dalla deposizione di Ali Abdullah Saleh e riconosciuto dalla comunità internazionale – e il Consiglio di Transizione del Sud (CTS) è ormai evoluto in una logorante guerra di posizione per il controllo di risorse naturali ed equilibri regionali. Una tragedia umanitaria che, secondo osservatori dell’ONU, ne fa la “peggior crisi del mondo” e che emerge e riemerge nel panorama mediatico internazionale. Come scritto nel marzo di quest’anno, il conflitto armato in Yemen, infatti, rivela una crisi complessa e multiforme che si traduce in carenza alimentare e idrica, povertà estrema, emergenze sanitarie, violenza diretta e indiretta, migrazione forzata, mancanze strutturali nei sistemi di approvvigionamento energetico e distruzione di infrastrutture civili. Al momento, la popolazione civile interessata da interventi umanitari ha raggiunto l’impressionante cifra di quasi 21 milioni, su un totale di circa 31 milioni di abitanti.

Il 16 febbraio 2021, la revisione della lista di organizzazioni terroristiche, alla quale il gruppo Ansar Allah era stato incluso in chiusura del mandato presidenziale di Trump a fine gennaio 2021, è stata una delle primissime risoluzioni dell’amministrazione Biden – in parte intenta a marcare un relativo cambio di passo con il precedente governo. La rimozione di Ansar Allah da tale lista aprirebbe a un vantaggio strategico, evidente perlomeno a parere espresso dalle Nazioni Unite e dalla rete delle maggiori organizzazioni umanitarie quali International Rescue Committee, Save the Children e Oxfam. L’etichettatura di “terrorista” e l’arbitraria delegittimazione che ne consegue nel trattamento diplomatico e militare, infatti, non produrrebbe altro risultato che la complicazione della risposta umanitaria nei territori ora sotto il controllo della fazione ribelle.
Proprio in funzione di assicurare l’accesso umanitario alla popolazione civile, lo scorso 16 ottobre, il portavoce dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA), Jens Laerke, ha chiesto un cessate-il-fuoco nel distretto Al-Abdiyah (governatorato di Marib), principale regione di estrazione petrolifera e di gas liquidi nel sud del paese, dove circa 35.000 persone sono tuttora bloccate. In seguito alla richiesta di Laerke, e dopo tre settimane di intenso scontro armato, è giunto tuttavia l’annuncio che la fazione Houthi ha assunto il controllo di due distretti in Marib e altri tre distretti nella regione di Shabwa. La sovranità territoriale di Ansar Allah nelle zone contese si estende ora alla quasi totalità dei governatorati centrali e settentrionali dello Yemen dell’ovest, lasciando il sud diviso tra la sovranità del governo di Aidarus al-Zubaidi (CTS), che gode del supporto degli Emirati Arabi Uniti, e il governo di Hadi, ora relegato al solo distretto di Al-Wadi e all’area urbana di Marib.
Un tempo tra i mercati più prosperi della regione, lo Yemen si trova oggi di fronte al consolidarsi di una vera e propria economia di guerra – specialmente intorno all’accesso e controllo delle risorse petrolifere – dovuto al consolidarsi del conflitto armato in Yemen. I diversi “vuoti di potere” sul territorio e lo stravolgimento dei regimi frontalieri, infatti, stimolano innanzitutto il mercato – regolare e irregolare – di risorse militari dall’Iran, che fin dal 2015 rifornisce armamenti e offre assistenza logistica ad Ansar Allah, o dall’Arabia Saudita come intermediario per i venditori europei e statunitensi.
A questi elementi strutturali di economia di conflitto vanno aggiunti il reclutamento di combattenti irregolari e mercenari da e verso le zone di conflitto, lo sfruttamento e traffico di esseri umani dal Corno d’Africa verso paesi politicamente più stabili, e l’import/export di sostanze illegali. Di particolare rilevanza è per l’appunto il qat, una sostanza perlopiù venduta a livello domestico e che rivela un drammatico segnale di sofferenza sistemica dovuta ai suoi effetti analgesici e repressori di stimoli di fame e fatica. Centrali nel consolidamento dell’economia di guerra in Yemen, inoltre, sono la rivendita al mercato nero di beni e merci in sovrapprezzo e arricchimento disonesto nella provvisione degli aiuti umanitari: un tema che mette ancor più in evidenza i limiti sistemici dell’intervento internazionale – che in Yemen è ora definito, di nuovo da osservatori dell’ONU, come la “peggior risposta internazionale a una crisi umanitaria”,
In breve, lo sconvolgimento economico e finanziario su scala nazionale, causato dal conflitto, non implica in alcun modo un arresto dell’economia reale dei milioni di cittadini e cittadine – che devono comunque assicurare mezzi di sussistenza e beni essenziali nonostante la guerra civile. E, in alcune circostanze, il protrarsi del conflitto è vera e propria condizione di base per nuove opportunità di profitto, impossibili in tempo di pace.
Per certi versi, a contribuire fin sul nascere all’estensione e consolidamento di uno “stato di conflitto”, è stato l’intervento preventivo da parte dell’ Arabia Saudita a guida dei paesi arabi a maggioranza sunnita – e che ha ben presto visto la controrisposta di Teheran. In particolare a partire dal novembre 2017, come reazione al lancio di missili balistici in direzione di Riyad, la coalizione saudita ha stretto l’embargo per lo Yemen sotto controllo Houthi – con conseguenze dirette e indirette per l’accesso umanitario – e che ha garantito un notevole stimolo per lo sviluppo di forme di sussistenza e di profitto informali e “sommerse”.
Il supporto militare ed economico di Teheran, d’altra parte, che a parere dell’inviato speciale USA Timothy Lenderking è talmente significativo da risultare “letale”, rileva un’intensa e intricata relazione con l’identità sciita del gruppo Ansar Allah. Secondo l’analisi del Centro Studi Internazionali (aprile 2020), l’approccio del governo iraniano all’intervento in Yemen risponde, da un lato, “[all’] importante ridimensionamento della presenza degli Stati Uniti” e, dall’altra, a una “volontà di ricoprire un ruolo all’interno di una crisi gestita esclusivamente da attori regionali più che all’interesse di replicare nello scenario yemenita l’ormai collaudato modello rivoluzionario”.
Al tempo stesso, gli Emirati Arabi Uniti hanno nel tempo intrapreso una complicata relazione con le fazioni indipendentiste dello Yemen meridionale, e ovviamente con il Consiglio di Transizione del Sud (CTS) – sorto dal Movimento del Sud (al-Hirak al-Janoubi) ma che include al suo interno anche elementi vicini alla Fratellanza Musulmana che ne mettono in questione la reputazione sul profilo internazionale. Nonostante le frizioni ideologiche, con il supporto di Abu Dhabi, il CTS si è ritagliato una posizione di rilevanza nel controllo dello Yemen del sud, da ultimo assicurandosi posizioni chiave nel governo riconosciuto dalla comunità internazionale, in particolare i Ministeri della Difesa e degli Interni.
Non da ultimo, la questione della sicurezza energetica svolge un ruolo cruciale in un conflitto che non solo si allinea al decennale scontro ideologico e geopolitico tra Teheran e Ryiad, e alle egemoniche “visioni nazionali” che guiderebbero la campagna indipendentista Houthi, ma che è soprattutto strutturato come vera e propria conquista territoriale, legata innanzitutto alle risorse petrolifere del paese. Se in questi anni, delle due regioni dove sorgono la maggior parte dei campi petroliferi yemeniti, lo scontro tra fazione ribelle e forze governative ha maggiormente colpito l’area di Marib, l’attenzione e l’apprensione degli osservatori esterni è oggi sempre più interessata dalle sorti del vicino governatorato di Hadramawt (produttore dell’80% dei profitti petroliferi del paese).
Le sorti del conflitto civile in Yemen si reggono pertanto su un pericoloso equilibrio di offensive militari, intimidazioni e negoziazioni – che la leadership Houthi dimostra di saper governare con competenza. Ad esempio, secondo quanto argomenta il Sana’a Center, in occasione della crisi dei prezzi del grezzo nel 2020, Ansar Allah avrebbe dimostrato notevole capacità strategica “presentando la crisi petrolifera come sintomo di aggressione esterna con grave impatto su una situazione umanitaria già disastrosa”, dunque negando una parte di responsabilità e al tempo stesso traendo guadagno diretto dall’incremento dei prezzi al dettaglio.

Ora, in assenza di un fronte unanime sulla legittimità dei gruppi di potere in causa, una lunga serie di azioni diplomatiche multilaterali ha accompagnato ogni sviluppo del conflitto. Già a partire dal 2015, la Risoluzione ONU 2216 ed embargo UE per la restrizione dell’import di armi, oppure l’Accordo di Stoccolma del 2018 – che disciplinava un impegno multilaterale verso obiettivi decisamente moderati e che, ciò nonostante, non ha visto piena realizzazione – o l’Accordo di Riyadh dell’anno successivo (firmato da sole due delle tre parti in conflitto): una dopo l’altra, queste risoluzioni hanno finora prodotto nessun reale cambiamento nel processo di pace.
La debolezza di fondo del sistema diplomatico internazionale, in un conflitto che è inoltre decisamente più “regionalizzato” rispetto a contesti di intervento del passato, contribuisce non poco alla situazione di crisi protratta, con drammatiche implicazioni per le sorti della popolazione yemenita e per i plausibili scenari per il futuro del paese. Instabilità politica che, inoltre, già si estende in ramificazioni analoghe dallo Yemen verso le regioni adiacenti nel Corno d’Africa, replicando le stesse dinamiche di traffico di armi, violenze asimmetriche, crisi umanitarie, migrazioni forzate e irrisolutezza internazionale.
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