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Haiti: il failed state dei Caraibi?

Marcello CreccobyMarcello Crecco
Ottobre 6, 2021
in America Latina e Caraibi
Reading Time: 5min read
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Haiti: il failed state dei Caraibi?

Lo Stato caraibico di Haiti è uno dei più poveri del continente americano e del mondo. La povertà assoluta, che ha sfondato il tetto del 60% nel 2020, ha lasciato il passo a problemi ancora più impellenti, come la violenza delle bande armate, l’instabilità politica e gravi calamità naturali, come il terremoto dell’agosto 2021. Tale situazione ha gettato nel caos l’isola caraibica che dalla scorsa estate è stata percorsa da un’escalation di violenza senza fine.

Il 7 luglio, è stato assassinato il presidente Jovenel Moïse mentre si trovava nella sua residenza. Un commando di mercenari colombiani e due cittadini statunitensi di origine haitiana hanno fatto irruzione di notte, senza incontrare nessun agente della guardia presidenziale. Durante il blitz, è stata gravemente ferita anche la moglie del Presidente, ricoverata in seguito in un ospedale di Miami.

Non si tratta certamente della prima crisi politica di Haiti poiché, fin dalla sua indipendenza nel 1804, il Paese ha sempre vissuto frammentazioni politiche, lotte intestine per il potere e un processo di democratizzazione tortuoso. L’assassinio di Moïse ha scosso l’opinione pubblica internazionale per le modalità con le quali si è consumato, ma i segnali di un possibile golpe erano ravvisabili già da tempo. A marzo, Haiti era stata travolta da grandi manifestazioni di protesta contro il capo dello Stato, accusato di voler accentrare i poteri e intenzionato a non rispettare la scadenza naturale del mandato. Nelle settimane precedenti  alle grandi proteste di piazza, Moïse aveva emanato dieci decreti successivamente finiti al centro delle polemiche. Alcuni di questi attuavano riforme attese da tempo, come l’aggiornamento del codice penale. Altri, tuttavia, attirarono molte critiche, poiché equiparavano la partecipazione alle manifestazioni di protesta a veri e propri atti di terrorismo. Inoltre, era prevista la creazione di un’agenzia di intelligence responsabile solo dinanzi al Presidente.

Le proteste per tali decreti avevano quindi paralizzato il Paese, portando alla chiusura di scuole e aziende, mentre la violenza delle bande armate aveva iniziato a dilagare per le strade. Il contesto haitiano aveva pertanto portato la Repubblica Dominicana, che condivide l’isola di Hispaniola con Haiti, a dichiarare la sua volontà di costruire un muro per impedire che questi gruppi criminali potessero oltrepassare il confine entrando in contatto con le bande dominicane. L’isolamento diplomatico di Haiti nella regione caraibica era già in corso da mesi, ma, con l’assassinio del presidente Moïse, questo processo ha subito una brusca accelerazione.

A febbraio 2021, le Nazioni Unite avevano denunciato la progressiva unificazione dei poteri sotto Moïse, in particolare di quello giudiziario. Un report di gennaio invece, sempre delle Nazioni Unite, evidenziava ripetute violazioni dei diritti umani da parte delle autorità nei confronti dei manifestanti. Il rapporto documentava anche l’impossibilità da parte dei cittadini di riunirsi pacificamente. Al contempo, nel 2019, manifestanti ed esponenti del crimine avevano imposto “tasse di passaggio” per ostacolare la circolazione di persone e merci e ostacolato l’accesso agli ospedali, sia delle persone sia delle ambulanze.

Il primo ministro Ariel Henry, nominato dal defunto presidente Jovenel Moïse due giorni prima di essere assassinato, il 27 settembre ha pubblicato un decreto in cui annunciava il licenziamento dei membri del Consiglio elettorale provvisorio (CEP). Il premier ha promesso di rinnovare i componenti del Consiglio, creando un organo apartitico, mentre il Paese potrà tornare a scegliere il Presidente della Repubblica solo dopo l’approvazione della riforma costituzionale, nei primi mesi del 2022.

Haiti non solo non ha al momento un capo di Stato, ma neanche un’Assemblea nazionale, dato che nel 2019 le elezioni legislative non si sono svolte, consentendo a Moïse di governare il Paese durante la pandemia di Covid-19. Questa crisi istituzionale ha spinto decine di migliaia di haitiani a fuggire, in particolare verso gli Stati Uniti attraverso la frontiera messicana. Le immagini della Border Patrol, la polizia di frontiera statunitense, che carica a cavallo e intimorisce i migranti haitiani usando le redini come fruste hanno provocato grande indignazione, ma hanno evidenziato il dramma della diaspora haitiana. In soli nove giorni, gli Stati Uniti hanno espulso quasi quattromila migranti haitiani, comprese centinaia di famiglie con bambini, senza consentire loro di chiedere asilo. L’amministrazione Biden ha effettuato queste espulsioni di massa sfruttando la legislazione di emergenza consentita dalla pandemia nota come Titolo 42, emanata per la prima volta sotto l’ex presidente Donald Trump. Daniel Foote, l’inviato speciale dell’amministrazione Biden per Haiti, si è dimesso per protestare contro le espulsioni “disumane” su larga scala di migranti haitiani verso il Paese d’origine, incapace di gestire i flussi migratori e troppo pericoloso, secondo il diplomatico statunitense. Tuttavia, Ariel Henry ha rilasciato un’intervista alla CNN dichiarando di comprendere le espulsioni praticate dagli Stati Uniti, affermando che Haiti non interferirà nel processo di rimpatrio dei suoi concittadini in quanto è un affare interno statunitense. 

La crisi di Haiti non sembra avere una soluzione nel breve periodo e il disinteresse degli Stati Uniti verso la regione caraibica, zona centrale per la sicurezza nazionale di Washington, non lascia spazio a previsioni ottimistiche. Il crollo dello Stato haitiano pone seri quesiti su quanto, oltre al terrorismo internazionale, i cosiddetti failed states – cioè Stati non più in grado di adempiere alle proprie prerogative sovrane – rappresentino una minaccia crescente per la sicurezza globale.

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Tags: Ariel Henrycaraibifailed stateHaitiimmigrazioneJovenel MoiseNazioni UniteStati Uniti
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