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Il 16 settembre, il presidente statunitense Joe Biden e i primi ministri di Regno Unito e Australia, Boris Johnson e Scott Morrison, hanno annunciato in videoconferenza la creazione dell’accordo AUKUS (dalle iniziali dei Paesi membri), un patto militare per la condivisione di informazioni e tecnologia. Come più volte ipotizzato nei mesi passati, dopo il ritiro dall’Afghanistan, gli USA si concentrano ora sul quadrante indo-pacifico per contenere le ambizioni oceaniche di Pechino, disincentivando innanzitutto un’occupazione di Taiwan. La nascita della nuova alleanza ha suscitato polemiche non solo nella regione, ma anche all’altro capo dell’Atlantico, dove la Francia di Emmanuel Macron ha visto sfumare una lucrosa commessa australiana, rimpiazzata da uno scambio di tecnologie i cui precedenti risalgono all’inizio della Guerra Fredda.
Nel quadro del trasferimento di tecnologia informatica e militare previsto da AUKUS, gli Stati Uniti si sono impegnati a munire Camberra di una nuova flotta di sottomarini a propulsione nucleare, realizzata col supporto inglese. Gli USA, pionieri di tale tecnologia negli anni ’50, si limitarono a condividerla solo con l’alleato britannico nel 1958, in virtù del patto bilaterale di mutua difesa. Ad oggi, solo i cinque membri permanenti del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e, dal 2012 l’India, dispongono di sommergibili nucleari. Rispetto ai sottomarini a propulsione tradizionale, essi sono più veloci, più difficili da identificare, possono restare sott’acqua anche per mesi e trasportare più testate, come riportato dalla BBC. Una flotta del genere consentirebbe all’Australia di esercitare una notevole influenza nella regione, contrastando le rivendicazioni di Pechino nel Mar Cinese meridionale e specialmente su Taiwan. Non a caso, lo stesso giorno della videoconferenza per AUKUS, un comunicato dell’AUSMIN – la conferenza interministeriale Australia-Stati Uniti – ha riaffermato l’importanza di Taipei nell’area, definendola una “democrazia di punta e un partner cruciale per entrambi i Paesi”. Il controllo dell’isola – una provincia ribelle per la Repubblica Popolare, che Xi Jin Ping ha promesso di “riunificare” entro il 2049 – permetterebbe infatti a Pechino di spezzare la “catena di isole” che dal Giappone alle Filippine impedisce alla flotta cinese di proiettarsi nell’Oceano Pacifico a detrimento della supremazia statunitense.
Le reazioni di Pechino all’annuncio di AUKUS non sono tardate. Zhao Lijian, portavoce del ministro degli esteri cinese, ha criticato l’iniziativa definendo “estremamente irresponsabile” il conferimento di una flotta nucleare all’Australia, invitando i membri del patto ad abbandonare “la obsoleta mentalità a somma zero della guerra fredda” e biechi calcoli geopolitici, considerando piuttosto il desiderio di pace e sviluppo dei rispettivi popoli. Ai toni contenuti dei portavoce ufficiali, si contrappongono quelli ben più aspri del Global Times, la testata anglofona del partito comunista cinese, che non ha esitato a definire gli Australiani lacchè di Washington, minacciando ripercussioni in caso di un’azione australiana negli Stretti di Taiwan. Il giornale avverte inoltre che, in caso di attacco, i soldati australiani sarebbero i primi soldati occidentali a perdere la vita nel Mar Cinese meridionale.
Gli sviluppi nel Pacifico hanno rassicurato Taiwan, uscito recentemente dall’annuale esercitazione militare in preparazione a un eventuale attacco cinese. Dopo la creazione di AUKUS Taipei ha infatti deciso di aumentare il proprio budget militare di altri 8,69 miliardi di dollari per l’acquisto di missili da crociera e navi da guerra, concorrendo così alla strategia di deterrenza portata avanti dai partner anglosassoni. Strategia che, però, non ha lasciato contenti tutti.

La firma del patto ha provocato un’aspra seppur breve crisi diplomatica tra Francia e Stati Uniti, che tuttavia rischia di non essere scevra di conseguenze. Per impegnarsi con Washington e ottenere la flotta nucleare, l’Australia ha rescisso una commessa di 56 miliardi di euro alla Francia per la costruzione di 12 sottomarini a propulsione tradizionale. Il ministro degli esteri francese Jean-Yves Le Drian ha parlato di una “pugnalata alle spalle” degna dell’amministrazione Trump, mentre Emmanuel Macron, lo scorso 18 settembre, ha richiamato i propri ambasciatori da Washington e Camberra. Tuttavia, già il 22 settembre si è avuta notizia di contatti telefonici tra Macron e Biden, durante i quali il presidente americano ha promesso un maggior supporto alle operazioni di anti-terrorismo nel Sahel, regione cruciale per l’industria energetica francese in virtù delle miniere uranifere del Chad e del Mali.
Nonostante la ricomposizione, l’affaire dei sommergibili rischia d’essere un duro colpo per Macron, a soli sei mesi dalle elezioni presidenziali. Marine Le Pen ha parlato di “umiliazione” per la Francia nel Pacifico e chiesto la convocazione di una commissione d’inchiesta, mentre per il candidato di centro-destra Xavier Bertrand la Francia è stata trattata come il valletto degli Americani e dovrebbe considerare il ritiro dal comando integrato della NATO.
Ma in che misura le vicende di AUKUS toccano l’Europa?
L’annuncio di AUKUS è giunto lo stesso giorno in cui l’Alto Rappresentante per l’Unione Europea Josep Borrell ha presentato la strategia UE per l’Indo-pacifico. Interrogato sull’iniziativa statunitense, i commenti dell’Alto Rappresentante sono stati piuttosto tiepidi, ma il supporto alla Francia è arrivato dai vertici dell’esecutivo europeo. La presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen, intervistata dalla CNN, ha definito “inaccettabile” il trattamento riservato alla Francia, mentre il presidente del consiglio europeo Michel ha parlato di “mancanza di trasparenza e lealtà” da parte americana. A margine dell’assemblea ONU, l’Alto Rappresentante ha fatto sapere che i ministri degli esteri dei 27, dopo diversi giorni di silenzio, hanno espresso anch’essi solidarietà a Parigi.

Diverse fonti attribuiscono il mancato coinvolgimento dell’Europa da parte degli USA nel Pacifico all’eccessiva tiepidezza dei partner europei nei confronti della Cina, che traspare anche dalla strategia indo-pacifica di Bruxelles. Essa ha avuto bisogno, come sostenuto dall’analista Frédéric Grare, di contemperare interessi molto diversi nella regione: fonti ufficiali europee menzionano esplicitamente Australia, Giappone, Corea del Sud, Nuova Zelanda e Singapore quali “likeminded partners” dell’Unione, mentre dall’altro chiariscono che la strategia non è ostile a Pechino; un approccio “morbido” che punta a tutelare soprattutto gli interessi tedeschi in Cina, specie nell’industria automobilistica. Questa ambivalenza potrebbe aver indotto gli USA a volgersi a chi fosse pronto a “menare le mani”, come sostenuto da Lucio Caracciolo, direttore di Limes, in un’intervista all’Huffington Post.
Gli Stati Uniti sembrano voler far salire la tensione nell’Indo-pacifico, supportati da un Regno Unito ansioso di tornare “Global Britain”, e da un’Australia spaventata dal gigantismo di Pechino. Gli attriti tra Eliseo e Casa Bianca potrebbero essersi ricomposti con uno scambio di favori e la Francia sembra aver già trovato un nuovo acquirente per i suoi sottomarini nell’India di Narendra Modi. Eppure la scelta di Washington sembra segnalare una mancanza di fiducia negli alleati europei che potrebbe comportare conseguenze negli anni a venire, specie in seno all’Alleanza Atlantica. I recenti sviluppi interrogano, infine, l’Unione Europea, la sua volontà e la sua capacità di giocare un ruolo concreto negli affari globali, all’alba di una probabile guerra fredda sino-americana che per alcuni potrebbe diventare facilmente calda.