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SPECIALE – Sicurezza militare: interna o internazionale?

mmbyMilo Lavina
Luglio 22, 2021
in Speciale
Reading Time: 15 mins read
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SPECIALE – Sicurezza militare: interna o internazionale?

La pandemia ha lasciato ferite profonde in tutte le economie del globo: le stime del Fondo Monetario Internazionale valutano una riduzione del 4,4% nel 2020 dell’economia globale, delineando un panorama addirittura peggiore alla Grande Depressione degli anni ’30 e con effetti mai registrati.

In una recessione tipica, infatti, i vari settori ciclici dell’economia subiscono una contrazione, mentre il settore dei servizi reagiscono solitamente meglio. Nel caso del Covid-19, invece, l’impatto ha investito contemporaneamente sia i settori produttivi ciclici sia l’economia dei servizi, con conseguenti fluttuazioni estreme dell’attività economica.

Nonostante la riduzione del PIL mondiale un settore che, forse a sorpresa, non solo non ha patito il decremento causato dalla pandemia, ma ha addirittura incrementato la sua spesa è stato quella della Difesa. 

Seguendo il report del SIPRI, l’anno della pandemia infatti ha registrato una spesa militare mondiale pari a circa 1.637 miliardi di euro, con un aumento del 2,6% rispetto all’anno precedente (nel quale si era già raggiunto il livello più alto dalla dalla fine della Guerra Fredda).

Come si possono interpretare questi aumenti? Gli Stati sono lanciati verso una corsa agli armamenti? Oppure, dopo la lezione impartita dalla pandemia, questi aumenti fanno parte di un disegno comune basato sulla cooperazione delle politiche di sicurezza? 

Fattori di influenza per la militarizzazione

Prima di analizzare nel dettaglio, è utile avere una panoramica del contesto in cui gli Stati si muoveranno nei prossimi anni nel settore della difesa.

Un interessante report dei trend del prossimo decennio del sistema internazionale prodotto dall’Istituto Affari Internazionali restituisce una panoramica dello scenario internazionale indirizzato verso un multipolarismo aggressivo.

All’origine di ciò sta la fine, ormai acclarata, dell’unipolarismo a trazione Usa: gli Stati Uniti hanno rinunciato al ruolo di poliziotto del mondo e con Trump hanno dato il via ad un’operazione di ritiro delle proprie forze armate dai teatri di guerra più lontani da casa.

Il nuovo inquilino della Casa Bianca sembra non voler cambiare troppo la rotta, come dimostra la decisione di ritirare le truppe dall’Afghanistan.

Tutto questo lascia un vuoto che numerosi egemoni regionali sono pronti a colmare, “tra cui Iran, la Turchia, l’Arabia Saudita, l’Egitto, Israele e le monarchie del Golfo, facilitate dalle difficoltà europee nell’esprimere una posizione comune verso il loro vicinato”.

Allo stesso tempo l’interesse di Washington si è focalizzato sul contenimento della Cina, individuato come competitor numero uno in maniera bipartisan vita “la sfida rappresentata dalla Cina agli interessi americani”. 

A proposito di Cina, la regione dell’Estremo Oriente è destinata a dover subire nei prossimi anni una spaccatura tra quei Paesi che saranno costretti a “saltare sul carro del vincitore (Pechino)” perché incapaci di reggere il confronto e quelli che cercheranno di contrastare l’ascesa della nuova superpotenza cercando canali di dialogo multilaterali magari con i Paesi occidentali. 

Tuttavia Marrone sottolinea come l’attenzione dei decision makers della difesa non dovrà essere mirata solo ai classici attori nazionali, poiché essi sono destinati a confrontarsi con giganti tecnologici, organizzazioni non governative (Ong), gruppi terroristici o organizzazioni criminali transnazionali, ovvero attori non statali ma con un’enorme capacità “d’influenzare globalmente tanto i trend politici ed economici, quanto i processi politico-decisionali”. 

A questo proposito un ruolo fondamentale sarà giocato alla lotta contro le fake news, fenomeno di solito snobbato nell’individuazione delle minacce internazionali, ma con un ruolo primario nella sicurezza nazionale.

Secondo uno studio della rivista Science Advances del 2018 le fake news “hanno raggiunto più persone della verità; l’1% più alto del flusso di notizie false si è diffuso tra 1000 e 100.000 persone, mentre la verità raramente si è diffusa a più di 1000 persone”.

Uno studio del 2019 ha rivelato come la popolazione americana ritiene le notizie inventate un problema molto più urgente e grave rispetto a temi come il terrorismo, immigrazione illegale e sessismo. 

Questo problema coinvolge anche l’ambito della difesa militare: un esempio interessante sono le campagne di disinformazione lanciate dalla Russia contro la NATO nella primavera 2020. La Russia ha diffuso affermazioni secondo cui la NATO avrebbe organizzato una esercitazione militare, la NATO Steel Brawler in Lettonia, senza tenere conto delle limitazioni causate dalla pandemia mettendo a repentaglio la salute dei civili. Una campagna simile ha accompagnato l’esercitazione DEFENDER-Europe 20 che secondo le fonti russe avrebbe diffuso il COVID-19 in tutta Europa.

Allo stesso modo, la disinformazione russa ha preso di mira un laboratorio statunitense in Kazakistan, definendo il Central Reference Laboratory di Almaty una “base militare statunitense e NATO non registrata” che viene utilizzata per sviluppare armi biologiche contro Russia e Cina. Il sito web in lingua russa “Rhythm of Eurasia” ha pubblicato un articolo secondo cui il COVID-19 è un prodotto degli studi finanziati dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti.

Tutto questo ovviamente è mirato a far perdere credibilità alla Nato per tenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica russa contro l’Alleanza, magari anche per spostare l’attenzione dall’incapacità del sistema interno di fronteggiare adeguatamente la crisi sanitaria.  

A questo si devono aggiungere le nuove minacce che il progresso tecnologico, tra tutte quelle riconducibili ai cyber attacks. Come riporta la prestigiosa rivista Forbes il 2020 è stato l’anno in cui è stata registrato il più alto numero di cyber attacks, causato dall’emergere di nuove applicazioni tecnologiche come l’apprendimento automatico, l’intelligenza artificiale e il 5G, uniti ad una maggiore cooperazione tattica tra gruppi di hacker e attori statali.

Emblematico è stato l’attacco cyber alla multinazionale Solar Winds, società che si occupa di gestione di network informatici e che annovera tra i suoi clienti alcune delle più importanti società private statunitensi, oltre che il Dipartimento della Difesa e la Federal Reserve. Kevin Thompson, Presidente e CEO di SolarWinds aveva rilasciato la seguente dichiarazione: “riteniamo che questa vulnerabilità sia il risultato di un attacco altamente sofisticato e mirato da parte di uno stato-nazione. Le forze federali hanno subito individuato la Russia come partner dell’attacco, decisione che ha comportato sanzioni contro funzionari e aziende russe nel tentativo di reprimere le interferenze elettorali e lo spionaggio informatico.”

Davanti a tale progresso tecnologico anche i gioielli dell’industria militare sono messi in pericolo: un esempio è il caccia di quinta generazione F-35, il quale è più probabile che  venga abbattuto da attacchi informatici rispetto ad uno missilistico. Rinominato “computer volante“, questo aereo poneva la sua forza proprio nella miriade di dispositivi digitali capaci di fornire informazioni vitali al pilota, sensori simile all’intelligenza artificiale, viste della telecamera a 360 gradi, collegamenti dati e sistema logistico computerizzato, ma proprio l’elevata dotazione tecnologica lo mette a repentaglio. Invece di doversi difendere solo dai missili nemici, oggi si deve far conto degli attacchi cibernetici capaci di bloccare il controllo delle armi a bordo, compromettere i dati sulle minacce o la loro traiettoria di volo. 

In un panorama come quello appena descritto è necessario che gli osservatori rinnovino anche la loro idea di scontro e di guerra: sono lontani i tempi delle guerre combattute tra due ordinati schieramenti su un ben circoscritto campo di battaglia. La tendenza che si osserverà è simile a quella descritta da Stefano Silvestri ha recentemente definito “guerra in tempo di pace”: il confronto militare tra i vari attori (statali e non) verrà combattuto “in varie forme di guerre per procura, attacchi cibernetici o guerre dell’informazione” con l’obiettivo di colpire le infrastrutture critiche come le fonti energetiche, screditare la catena politica tutto questo per mettere sotto pressione l’opinione pubblica o minare il benessere economico.

Alleanze militari: sì o no?

Come possiamo quindi analizzare la crescita della spesa militare dei vari Stati davanti ad uno scenario che, per quanto teorico, sembra essere confermato dalle traiettorie assunte dai vari Stati? Anche in questo caso proprio le lezioni imparate dal Covid-19 potrebbero risultare il principio ispiratore. 

La pandemia ha sicuramente mostrato una cosa: il sistema internazionale è estremamente fragile ed interdipendente. Dall’epidemia alla corsa per trovare un cura, dai danni economici alla distribuzione dei vaccini è impossibile per qualsiasi Paese oggi fronteggiare una sfida da solo, a prescindere da potenza economica o stabilità politica.

Questa filosofia sembra essere ben chiara anche nelle alte sfere militari degli eserciti, specie in un mondo che si prospetta essere più competitivo ed aggressivo. 

La consapevolezza di dover fronteggiare minacce globali in un sistema in cui tutti gli attori sono interdipendenti può essere il fattore determinante che spinge i vari attori a livelli di cooperazione militare, sempre su base regionale, vecchi o nuovi.

Per questo l’aumento della spesa non deve essere necessariamente inteso come la preparazione ad un scontro tutti contro tutti, ma può essere spiegato come un naturale passo per preparare i vari sistemi-paese a minacce nuove e raggiungere un punto in comune su cui cooperare.

Il caso più esemplificativo di questa visione arriva dal recente viaggio del Presidente Biden in Europa dove, tra i vari temi trattati, ha avuto una forte rilevanza quello riservato al rilancio della Nato. Dopo essere stata descritta come un’alleanza “cerebralmente morta” il suo segretario Jens Stoltenberg ha affidato ad un Gruppo di Riflessione indipendente il compito di ridisegnare gli obiettivi strategici dell’Alleanza, per darle nuova linfa e restituirle il rango di attore centrale nel contesto della politica di difesa. I lavori sono terminati con la formulazione del progetto Nato 2030, un nuovo scenario di cooperazione dei Paesi membri rivolto proprio alle sfide individuate da Marrone e Muti.

C’è infatti la presa di consapevolezza che accanto alla Russia, potenza responsabile della creazione stessa dell’Alleanza, la Cina rappresenta un competitor sistemico che può essere affrontato solo tramite la cooperazione dato che “le ambizioni dichiarate e il comportamento assertivo della Cina presentano sfide sistemiche all’ordine internazionale basato sulle regole“. 

Per quanto riguarda la dimensione informatica si è concluso che gli attacchi cyber saranno trattati come qualsiasi altro attacco che comporta l’attivazione dell’articolo 5 del Trattato (che riguarda la difesa collettiva) e hanno approvato una nuova Cyber Defence Policy per rispondere adeguatamente alle minacce attuali, anche se di basso livello.

Davanti a questo nuovo impegno degli Usa nell’alleanza, si può capire meglio anche l’aumento della spesa militare da parte dei paesi europei: come spiega il curatore del report SIPRI Nan Tian è il frutto degli stimoli che arrivano da Washington, in un’ottica di rinnovamento e rinforzo dell’Alleanza.  

Gli Usa però curano la propria cooperazione militare non solo in Europa, ma sono decisi a creare framework anche nell’Asia Orientale. E’ il caso del Quad, il Quadrilateral Security Dialogue, una forma di dialogo informale per coordinare le politiche di Difesa di Stati Uniti, India, Giappone e Australia. Gli obiettivi sono simili a quelli della Nato: formulare una risposta coordinata allo politica assertiva cinese soprattutto in aree come quella del Mar Cinese Meridionale e coordinare le proprie politiche di sicurezza. 

Un esempio viene nella cooperazione cyber, intensificata proprio dopo dopo l’attacco SolarWinds, con gli Usa che immaginano il Quad come un “veicolo per la cooperazione informatica regionale” come spiegato a marzo dal consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, dopo ”anche gli attacchi informatici che hanno colpito Giappone, India e Australia solo nelle ultime settimane e mesi”

In europa il principale contesto di cooperazione in ambito di sicurezza è l’Unione Europea. 

L’UE è stata spesso criticata di non riuscire a tradurre la sua integrazione in campo economico e politico in un contesto di Difesa Europea.

Gli elementi che possono aver influenzato questo ritardo sono sostanzialmente due: da un lato alcuni Stati sono scettici nel cedere una parte importante della propria sovranità all’Unione, che prenderebbe così la forma sempre più di Federazione; dall’altro lo storico rapporto nel campo della difesa con gli Usa potrebbe aver spinto gli europei a non puntare su questo settore, forti del fatto che l’alleato a stelle a strisce avrebbe garantito la sicurezza.

Tuttavia, di fronte alle nuove sfide individuate, si deve registrare una maggior cooperazione nel comparto della difesa. L’UE ha lanciato una “guerra contro la disinformazione diffusa dal Cremlino”, che è definita come “parte della dottrina militare russa e della sua strategia per dividere e indebolire l’occidente”.

Nel 2019 la commissione ha istituito un sistema di allarme rapido per aiutare gli Stati membri dell’UE a riconoscere le campagne di disinformazione; questo meccanismo è risultato particolarmente utile durante la pandemia per contrastare la disinformazione relativa al COVID-19. Uno strumento sicuramente non risolutivo, ma che mostra la consapevolezza degli Stati membri di cooperare. 

Per quanto riguarda la cyber defense nel dicembre 2020, la Commissione europea e il Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE) hanno presentato una nuova strategia dell’UE per la cybersicurezza con l’obiettivo di “rafforzare la resilienza dell’Europa contro le minacce informatiche e garantire che tutti i cittadini e le imprese possano beneficiare appieno di servizi e strumenti digitali affidabili e affidabili”.

In tale ottica si è rinnovata anche  l’Agenzia dell’Unione europea per la sicurezza delle reti e dell’informazione (ENISA), ora con un ruolo rafforzato e un mandato permanente, col compito di supportare gli stati membri , le istituzioni dell’UE e gli altri soggetti colpiti da attacchi informatici. In questi giorni inoltre la commissione sta discutendo la formazione di una “Joint Cyber ​​Unit“, che consentirebbe ai Paesi colpiti da attacchi informatici di chiedere aiuto ad altri paesi e all’UE “anche attraverso squadre di risposta rapida che possono intervenire e contrastare gli hacker in tempo reale” secondo la proposta.

La cooperazione cinese è meno semplice da leggere. Pechino attualmente annovera la seconda spesa al mondo nel comparto della difesa con un  budget che ammonta a 209,16 miliardi di dollari in un percorso che vede aumentare la sua spesa per il 26° anno consecutivo.  Per avere un’idea della normale cooperazione militare  cinese ci rifacciamo ai dati pre-pandemia. Tra il 2003 e il 2018 la Cina ha partecipato a un totale di 310 esercitazioni militari con 63 paesi, con partnership ripetute con Russia, Pakistan e Stati Uniti. La frequenza, la complessità e l’intensità di questi esercizi variano però a seconda dell’alleato: ad esempio, la Cina conduce regolarmente grandi esercitazioni militari con la Russia: tra il 2005 e il 2018 sono state svolte 45 esercitazioni tra gli eserciti dei due Paesi, tra cui la più importante la Peace Mission 2005 ha visto la partecipazione di circa 8.000 soldati cinesi. Al contrario, la Cina non ha condotto esercitazioni di combattimento con gli Stati Uniti e spesso invia pochi uomini a partecipare a esercitazioni multilaterali a guida Usa. Ad esempio, solo 17 soldati cinesi hanno partecipato alle esercitazioni U.S.-led Cobra Gold 2014. Dato l’escalation di tensioni tra Pechino e Washington è naturale aspettarsi che lo scarso impegno tra i due Paesi in ottica militare continui. Eugene Rumer, ex ufficiale dell’intelligence nazionale per la Russia e l’Eurasia presso il National Intelligence Council degli Stati Uniti, sottolinea come la principale preoccupazione per la Cina sia la cooperazione con la Russia, perché permette di rilassare le difese sui 4000 km di confine comune; tuttavia analizza anche una sorta di diffidenza in questo rapporto, dato che “le esercitazioni sono generalmente condotte in parallelo piuttosto che congiuntamente e non comportano un coordinamento tattico o operativo per migliorare l’interoperabilità dei paesi o le capacità di combattimento congiunto”.

Conclusione

Davanti ai trend attuali è inevitabile immaginare un futuro della difesa militare che pone al centro la cooperazione. Tale linea ormai esula sempre più dalla volontà politica dei singoli governi, ma trova la sua giustificazione nella necessità di fronteggiare sfide e minacce che hanno una portata globale e all’incapacità del singolo di rispondere in maniera adeguata. Si dovrà quindi ripensare al livello di sicurezza nazionale, che coinciderà sempre più con una sicurezza internazionale e regionale. Sono lontani i temi delle superpotenze capaci da sole di garantire la sicurezza globale: prepariamoci ad assistere al rafforzamento di vecchie alleanze alla formulazione di nuove, perché oggi più che mai l’unione fa la forza.    

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