Il Venezuela è da anni uno dei dossier più spinosi per l’inquilino dello Studio Ovale: il Paese caraibico è sprofondato in una crisi economica così acuta da sfociare in una crisi umanitaria. Sono oltre 5,6 milioni i venezuelani emigrati finora in 17 Paesi. La situazione è ulteriormente peggiorata con il COVID-19, abbattutosi in uno Stato fragilissimo dove già scarseggiavano medicinali di base e respiratori. I dati macroeconomici dipingono un quadro ancora più drammatico: il Venezuela ha perso il 98,6% delle sue entrate, passando dagli oltre 50 miliardi di dollari nel 2013 a meno di 800 milioni nel 2020. Il PIL è in recessione da 30 trimestri consecutivi contraendosi di oltre l’80%. In questo modo è passato dagli oltre 250 miliardi di dollari del 2013 a poco più di 40 miliardi a fine 2021. L’inflazione, invece, si attesta attorno al 2300%, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale. Anche l’estrazione del petrolio (la spina dorsale dell’intero sistema economico nazionale) è crollata. A marzo 2015, il Venezuela estraeva circa 2,8 milioni di barili di greggio al giorno, un dato che, secondo l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (OPEC), sarebbe crollato a 350 mila barili al giorno nell’agosto 2020.
Negli ultimi mesi, questa situazione ha spinto il governo di Nicolás Maduro ad attenuare i toni, spesso conflittuali, con gli Stati Uniti. La speranza a Palacio Miraflores è che il cambio di inquilino alla Casa Bianca possa aprire una fase di maggior dialogo, uscendo dalla maximum pressure strategy dell’amministrazione Trump, reo di aver inasprito molto le sanzioni, minacciando persino l’offensiva militare. Trovare una tregua con il potente vicino settentrionale è indispensabile per il governo Maduro, dato che anche la sua roccaforte è giorno dopo giorno sempre più debole. Caracas, difatti, è ‘sotto l’assedio’ di gang armate che controllano già i principali barrios, i quartieri popolari. Il caso più eclatante è Cota 905, un luogo dove le forze di sicurezza non riescono nemmeno più ad entrare. L’assenza di un potere reale è un dato di fatto in gran parte del Venezuela. Di fronte ad un tracollo economico, l’amministrazione Maduro ha gradualmente abbandonato le funzioni governative di base, tra cui la polizia, la manutenzione stradale, l’assistenza sanitaria e i servizi pubblici, per riversare le sempre più esigue risorse a Caracas, sede delle élite politiche, economiche e militari che formano la sua base di appoggio. Vaste aree del territorio nazionale sono cadute in mano a criminali e insorti, ma il controllo della banda di Cota 905 e delle baraccopoli circostanti, che si trovano a pochi chilometri dal palazzo presidenziale, è la prova che il suo governo sta perdendo il controllo anche nel cuore della capitale.

Un timido segnale di distensione sul piano internazionale è arrivato lo scorso aprile quando il World Food Programme e il governo venezuelano hanno annunciato un accordo per la distribuzione di viveri ad oltre 180 mila studenti, raggiungendo una platea di 1,5 milioni entro la fine dell’anno scolastico 2022/2023. Sempre ad aprile, il governo venezuelano ha scarcerato, dopo oltre tre anni di detenzione, sei ex dirigenti della statunitense Citgo, sussidiaria di PDVSA (l’azienda petrolifera statale) e controllata dall’opposizione, preferendo l’irrogazione di pene alternative come gli arresti domiciliari. La detenzione degli ex dirigenti, cinque cittadini statunitensi naturalizzati e un residente permanente, è motivo di grandi tensioni tra Caracas e Washington, che ha ripetutamente chiesto il rilascio dei prigionieri. Anche il leader dell’opposizione Juan Guaidó ha aperto al dialogo con Maduro, proponendo l’Accordo di Salvezza Nazionale. Ha affermato che è necessario cercare soluzioni realistiche e praticabili alla crisi sociale, economica e politica. Guaidó ha affermato che qualsiasi accordo deve essere raggiunto attraverso negoziati che coinvolgano l’opposizione, le forze filo-governative e la comunità internazionale. Tuttavia, Maduro ha rifiutato tale accordo invitando la popolazione a non lasciarsi distrarre. A maggio, l’Assemblea nazionale ha nominato due sostenitori dell’opposizione, tra cui un attivista precedentemente incarcerato, come funzionari elettorali. Per la prima volta dal 2005, l’opposizione avrà dei seggi nel Consiglio elettorale nazionale.

Recentemente, Maduro ha rilasciato una lunga intervista esclusiva a Bloomberg dove ha rivolto pubblicamente un appello a Biden affinché rimuova le sanzioni, poiché hanno avuto un impatto devastante sull’economia venezuelana. Un portavoce del Dipartimento di Stato ha affermato che un cambiamento di policy degli Stati Uniti richiederebbe sforzi ben maggiori da parte del presidente venezuelano. Essi dovrebbero includere l’impegno di risolvere la crisi politica, assieme al leader dell’opposizione Juan Guaidó, aprendo la strada a elezioni libere ed eque, oltre che a ripristinare le libertà economiche e politiche. La posizione degli Stati Uniti sulla mancanza di legittimità di Maduro non è cambiata con l’entrata in carica di Biden. Gli Stati Uniti riconoscono Juan Guaidó come Presidente e ciò complica ancora di più qualsiasi possibile dialogo.
Ciononostante, pochi giorni fa, gli Stati Uniti, l’Unione Europea e il Canada hanno annunciato che sono disposti a rivedere la loro politica delle sanzioni se il governo e l’opposizione del Venezuela saranno in grado di fare “progressi significativi” in merito a libere elezioni locali, parlamentari e presidenziali. Le prossime elezioni sono fissate al 21 novembre e si voterà per il rinnovo di tutti e 23 gli Stati federati. La situazione politica in Venezuela rimane di difficilissima soluzione, ma dopo anni di stallo istituzionale potrebbe esserci una via d’uscita da una crisi il cui prezzo è stata pagato solo dalla popolazione civile.
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