Il 3 marzo 2016, il cittadino indiano Kulbhushan Sudhir Jadhav fu arrestato in territorio pakistano con l’accusa di spionaggio e terrorismo internazionale. A seguito dell’arresto, l’India negò tutte le accuse, sostenendo che Jadhav fosse stato rapito in Iran dove aveva interessi commerciali dopo essersi ritirato dalla Marina indiana, e che non aveva legami con il governo. Il governo indiano sostenne inoltre che Islamabad l’avesse catturato illegalmente oltre i propri confini. Dopo essere stato imprigionato, del cittadino si persero notizie per ventuno giorni. Durante questo periodo di incertezza, e a fronte dell’inizio dell’iter processuale, il governo Indiano richiese più volte, appellandosi alla Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari, di avere la possibilità di parlare e incontrare il proprio cittadino. In un primo momento, il Pakistan accolse la richiesta, a condizione che l’India fornisse determinate prove fondamentali per la conferma dei capi d’imputazione. Al netto rifiuto indiano, il procedimento giudiziario si concluse con la pronuncia della condanna a morte dell’imputato da parte del tribunale militare. Preso atto della sentenza, il governo indiano decise di adire alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG).

Punto cardine della questione è stato l’art. 36 della Convenzione di Vienna (1963), che tratta le relazioni consolari. L’articolo citato prevede che gli agenti consolari abbiano pieno titolo e diritto di comunicare e interagire con i propri cittadini che si trovano nel Paese straniero dove l’autorità consolare esercita la sua funzione. Inoltre, l’articolo sopracitato dichiara al comma (b) che “le autorità competenti dello Stato di residenza devono avvertire senza indugio il posto consolare dello Stato d’invio allorché, nella sua circoscrizione consolare, un cittadino di questo Stato è arrestato, incarcerato o messo in stato di detenzione preventiva o d’ogni altra forma di detenzione”. Infine, l’articolo dispone che il console abbia il pieno diritto a recarsi nella prigione in cui il cittadino è recluso per interagire con lui e di assisterlo nell’iter giudiziario.
Davanti alla CIG, la parte indiana ha sostenuto, in maniera tassativa, che l’art. 36 della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari disponga, senza possibilità di mal interpretazione, che i funzionari consolari abbiano il pieno diritto di comunicare, in ogni circostanza, con i propri cittadini che si trovino sul territorio nel quale il console è accreditato. In maniera ancora più specifica, il governo di Nuova Delhi è convinto che, proprio nella condizione di arresto, detenzione o limitazione della libertà personale, la funzione consolare possa essere di estremo aiuto a un cittadino che non fosse il suo di appartenenza.
Al contrario, il governo pakistano ha sostenuto che tale articolo non potesse applicarsi nei casi in cui i capi d’accusa siano quelli di spionaggio e terrorismo, considerando che nella Convenzione non viene menzionato specificatamente nulla di legato a questo specifico contingente. Di conseguenza, non essendo compreso nella Convenzione l’aspetto preso in esame, secondo il governo pakistano è da ritenersi applicabile il diritto internazionale consuetudinario in vigore prima della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari, e quindi prima del 1963. Secondo la consuetudine internazionale dunque, nel caso di spionaggio o terrorismo, verrebbe escluso il diritto del console di comunicare con i propri cittadini accusati di tali reati.
A sostegno di questa tesi, il Pakistan ha ricordato che ai sensi dell’art. 36 della Convenzione, qualora sia impossibile riscontrare delle direttive specifiche nel trattato, bisognerebbe continuare a riferirsi alle norme consuetudinarie di diritto internazionale. Il governo pakistano ha infine ribadito come la Convenzione di Vienna non debba essere il documento principale da consultare nel caso specifico, bensì l’accordo indo-pakistano sulle comunicazioni consolari. Tale patto, concluso dai due Paesi nel 2008, afferma che, nel caso di condanna di un proprio cittadino nel territorio dell’altro Stato, “spetta a ciascuna parte esaminare la questione del merito”. Il governo di Nuova Delhi ha ritenuto invece che tale accordo bilaterale fosse nato al fine di allargare e semplificare le norme della Convenzione di Vienna, non sicuramente per modificarla o per costituire deroghe totalmente incompatibili con la Convenzione. Infine, il governo indiano ha precisato come Islamabad non abbia mai registrato tale accordo presso il Segretariato Generale delle Nazioni Unite e che, per diretta conseguenza, tale Accordo non sia invocabile davanti agli organismi internazionali ONU.
La Corte Internazionale di Giustizia, in relazione a quanto affermato da Islamabad, ha precisato che nulla viene detto nell’art.36 della Convenzione di Vienna circa il diritto del console di comunicare con un proprio cittadino accusato di spionaggio nel suo paese di accreditamento. La stessa Corte ha fatto poi presente come nel preambolo della Convenzione si trovi chiaramente delineato che solo nel caso in cui una tematica non sia espressamente regolata dalle disposizioni della convenzione, ci si atterrà al diritto internazionale consuetudinario. Dunque, preso atto che l’art. 36 non prevede nessuna possibile deroga al diritto di comunicazione tra consoli e cittadini che si trovano sul territorio di accreditamento del consolato si conclude che, a differenza di quanto sostenuto da Islamabad, è l’art. 36 che deve regolare la questione e non il diritto consuetudinario.
Per quanto riguarda l’accordo del 2008, citato dal governo pakistano e volto ad agevolare le relazioni diplomatiche tra i due paesi, la Corte ha disposto che tale accordo sia sicuramente legittimo (ai sensi del para. 2 dell’art.73 della Convenzione), ma che non può comportare un venir meno agli obblighi discendenti dalla Convenzione.
La Corte, il 17 luglio 2019, ha emesso la sentenza definitiva, mostrando un accordo significativo tra i giudici (unanimità sulla giurisdizione e 15 voti contro 1 su ricevibilità e merito). Il verdetto ha disposto che Islamabad, non avendo comunicato all’India le misure cautelari verso un suo cittadino, ha privato tale paese del diritto di assisterlo, così come anche del diritto di comunicare direttamente con lui. Per la Corte, ciò ha determinato l’obbligo del Pakistan “tramite mezzi a propria scelta” ad una rivalutazione e ad una “effettiva revisione” del verdetto di colpevolezza e della pena di morte inflitta al cittadino indiano Jadhav, “in modo da assicurare che la dovuta importanza sia assegnata alle conseguenze della violazione dei diritti previsti dall’art. 36 della convenzione di Vienna.”