Il concetto di esercito ha subito diverse trasformazioni nel corso dei secoli con l’evolversi delle guerre, delle tecnologie militari e delle relazioni internazionali tra i Paesi. Allo stesso modo, l’utilizzo delle forze armate è cambiato significativamente, in particolare dopo la conclusione delle due guerre mondiali e della guerra fredda: in una nuova – moderna – epoca, caratterizzata dalla quasi totale assenza di conflitti diretti tra le maggiori potenze, il ruolo dei soldati e il fine delle missioni ha cominciato ad associarsi sempre più al concetto strategico di strumento di politica estera. Con l’evoluzione della pratica degli accordi bilaterali tra Stati, in grado di garantire un equilibrio tra la pace ed un coordinamento internazionale che renda possibile il perseguimento degli interessi dei vari Paesi, è apparso naturale un processo orientato alla creazione di un nuovo tipo di esercito, che funge da garante della pace internazionale.

Un primo risultato di questo procedimento si riscontra nella costituzione dell’organizzazione internazionale NATO, il cui trattato venne firmato a Washington nel 1949, come simbolo di collaborazione nel settore della difesa. L’Articolo 5 dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord esplicita con precisione il concetto di ‘difesa collettiva’ recitando: “Le parti concordano che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o in America settentrionale, deve essere considerato come un attacco contro tutte e di conseguenza concordano che, se tale attacco armato avviene, ognuna di esse, in esercizio del diritto di autodifesa individuale o collettiva, riconosciuto dall’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti attaccate prendendo immediatamente, individualmente o in concerto con le altre parti, tutte le azioni che ritiene necessarie, incluso l’uso della forza armata, per ripristinare e mantenere la sicurezza dell’area Nord Atlantica”. Di diversa natura, ma con lo stesso principio alla base, vi fu poi la formazione dei peacekeeping dell’ONU, comunemente detti ‘caschi blu’, i quali, a partire dalla crisi di Suez del 1956, intervengono nelle questioni internazionali per la prevenzione dei conflitti, l’edificazione, il mantenimento e il consolidamento della pace e per fornire assistenza umanitaria.

Avendo appurato come la politica estera giochi un ruolo cruciale nel processo di internazionalizzazione della difesa e dell’esercito, vi è un altro fattore che ha un peso specifico determinante: la globalizzazione. Inequivocabilmente legata alla logica del multilateralismo, la globalizzazione in ambito commerciale necessita di un sistema di difesa che permetta la funzionalità degli accordi e la prosperità degli scambi tra Stati: è così che si favorisce, anche attraverso l’ambito economico, la nascita di organizzazioni di stampo internazionale.
A livello europeo si è molto discusso riguardo la possibilità di integrazione e cooperazione nella difesa, ma la posizione contraria del Regno Unito, che sostiene unicamente la NATO come “pietra angolare della difesa dell’Europa” e considera il progetto una “limitazione alla sovranità degli Stati nazionali”, ha impedito l’evolversi della situazione. In seguito alla Brexit, però, le trattative tra 14 membri dell’UE sono riprese e hanno consentito di raggiungere un’intesa per la creazione dei ‘First entry force’, un battaglione composto da 5.000 soldati in grado di intervenire rapidamente in caso di minaccia ai confini europei. Il progetto va ad integrarsi agli altri 45 esistenti nell’orizzonte della ‘Permanent Structured Cooperation’ o PESCO, che, lanciato l’11 dicembre 2017, rappresenta il maggiore piano di cooperazione militare tra Paesi membri dell’Unione Europea. La stessa Presidente della Commissione Europea, Ursula von Der Leyen, dichiarò nel 2015 che ‘Il nostro futuro di europei esigerà che un giorno ci dotiamo anche di un esercito comune’, in linea con l’idea del suo predecessore – e all’epoca Presidente in carica – Jean-Claude Juncker.
L’urgenza dell’Unione nell’avere a disposizione un numero sufficiente di soldati europei è dettata anche dalla natura del sistema UE: è proprio la mancanza di una politica comune in termini di sicurezza a costituire una grande minaccia alla sopravvivenza degli Stati Membri contro nemici esterni e interni e a rendere quindi necessaria la realizzazione del progetto. Un altro punto a favore è senza dubbio l’efficienza con cui l’esercito ‘comunitario’ sarebbe in grado di operare: un fondo comune destinato alle spese militari costerebbe, per un totale di 100.000 soldati, circa 25-30 miliardi di euro l’anno, un importo pari allo 0,3% del PIL degli Stati Membri.
In conclusione, in un rapporto di crescita proporzionalmente inverso, mentre la difesa interna va incontro ad una crisi – a seguito della crescente smilitarizzazione in atto -, l’appeal della difesa internazionale cresce e si espande, non solo per la praticità che rappresenta ma anche perché rafforza l’immagine di un’Europa unita tra i cittadini, in uno spirito di pace, collaborazione e integrazione. Riprendendo le parole di Juncker infatti: “Un esercito di questo tipo dichiarerebbe al mondo che non ci sarà mai più una guerra tra Paesi UE, ci aiuterebbe a costruire una politica di difesa e di sicurezza comune, e ad assumere tutti insieme le responsabilità dell’Europa nel mondo”.
Latest posts by Lorenzo Caruti (see all)
- La Spagna e il coraggio di cambiare: il progressismo giuridico iberico alla guida dell’UE - Giugno 16, 2022
- Cina, il controllo del Pacifico passa (anche) per Tonga - Marzo 24, 2022
- La condizione delle donne e della società civile in Afghanistan: dall’occupazione statunitense al ritorno dei talebani - Ottobre 24, 2021