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SPECIALE: Il ruolo della politica nelle diseguaglianze educazionali

mmGianmarco SerinobyLorenzo CarutiandGianmarco Serino
Giugno 24, 2021
in Speciale
Reading Time: 17 mins read
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SPECIALE: Il ruolo della politica nelle diseguaglianze educazionali

L’educazione è da sempre strumento per il consolidamento di qualsiasi egemonia, che sia essa militare, culturale o meramente religiosa. Si pensi alla nascita di uno Stato e dell’identità che ne deriva: essa si svolge proprio nella culla del sistema educazionale, pilastro imprescindibile per l’insegnamento di una storia, una memoria, un mito, dei valori e soprattutto di una lingua comune per una società fatta di persone in carne e ossa e che vivono all’interno dei confini nazionali. Lo stress economico, sociale e culturale generato dalla pandemia ha messo alla prova l’uomo e la sua tecnologia, orientando le scelte di ogni Stato all’adozione di una peculiare strategia per evitare l’interruzione, per quanto possibile, del servizio educativo.

Nel nostro Paese, smartphone e  computer (e anche i tavoli di casa) hanno improvvisamente sostituito i compagni di classe, le lavagne e i banchi. Questa è la realtà in cui milioni di studenti sono stati costretti a immergersi e immedesimarsi, con la costante paura, con il passare dei mesi, che tutto questo potesse lentamente diventare la normalità. Lo stesso si è ripetuto similmente in altri Stati, come ad esempio nel Regno Unito, il quale però, un progetto egemonico a lungo termine nelle ex colonie ha in qualche modo compensato le mancanze del sistema educativo per quanto concerne le scuole primarie sul suolo britannico, servendosene al di fuori dei confini per mantenere la propria influenza. Non bisogna dimenticare che Paesi dal medesimo passato colonialista, hanno messo in campo strategie completamente diverse, se non addirittura agli antipodi: si pensi alla Francia, alla sua ex colonia Algerina e al fronte interno al Paese, le banlieues e il separatismo islamico, dovuti proprio a una lacuna nel sistema educazionale come strumento di integrazione tra popoli di diversa etnia, cultura e religione. La sensibilità della politica nei confronti del sistema dell’educazione, in ogni sua sfaccettatura senza tralasciarne nessuna, è fondamentale e imprescindibile, perché come si andrà a dimostrare in questa analisi, gli esiti di mancanze, nel lungo termine, possono essere davvero drammatici.

DAD, tra teoria e pratica

La digitalizzazione è un fenomeno che si sta sviluppando concretamente nell’ottica della società del futuro. Essa ha preso piede sensibilmente in questi anni, evolvendosi e influenzando la vita quotidiana con rapidità, in un lasso di tempo relativamente breve come mai prima d’ora. Infatti, l’utilizzo e l’implementazione della tecnologia attraverso lo smart working e la Didattica a distanza (DAD) hanno conosciuto una crescita esponenziale, possibile attraverso gli accordi tra le scuole e le innumerevoli piattaforme digitali, tra cui in particolare – come reso noto dal MIUR (Ministero dell’Istruzione e Ministero dell’Università e della Ricerca della Repubblica Italiana) – Classroom di Google e Zoom, Office 365 Education A1 di Microsoft, Weschool di TIM e la più utilizzata Moodle. L’attitudine all’adattamento da parte degli studenti, specialmente quelli più piccoli, non era affatto una situazione scontata. Nonostante le generazioni Z, comprese tra 1995 e il 2010 dei nascituri, e Alpha, dal 2010 in poi, presentino come caratteristica basilare l’essere nate e cresciute nell’era più tecnologica della storia, l’utilizzo intensivo degli strumenti per l’e-learning ha rappresentato comunque un’estremizzazione dello sfruttamento umano dal lato psichico e tecnologico. L’uso eccessivo e a tratti smodato di telefoni e social media da parte di ragazzi e bambini ha influito sotto questi aspetti, così come la decisione di numerosi istituti di ridurre l’ora di insegnamento a distanza di quaranta minuti per materia, permettendo agli studenti almeno un quarto d’ora abbondante durante il quale separarsi dai dispositivi elettronici e beneficiare di una breve pausa tra una lezione e l’altra.

Il sistema scolastico esistente, in Europa e nel mondo, presenta una serie di disuguaglianze, spesso legate al differente background familiare degli studenti. Con la DAD, però, si sono aperti una serie di scenari dove, a seconda degli interventi statali e delle organizzazioni internazionali come l’Unione Europea, si può prevedere una riduzione delle disuguaglianze o l’inasprimento delle stesse, passando per una moltitudine di alternative intermedie più o meno positive e ottimistiche. 

In linea teorica, la DAD rappresenta un’occasione unica per predisporre uno sviluppo del sistema scolastico capace di minimizzare le disuguaglianze tra istituti, studenti e insegnamento. Da un lato, l’e-learning ha fatto passare in secondo piano, almeno momentaneamente, il divario tra le strutture scolastiche, le quali vivono da decenni il problema delle aule da ristrutturare, dei luoghi più o meno agibili, dei banchi da aggiustare o addirittura inesistenti. Allo stesso modo, in Italia, gran parte degli studenti provenienti da famiglie meno abbienti o in difficoltà economiche ha potuto usufruire degli strumenti tecnologici essenziali per la DAD al pari degli altri compagni di classe grazie al ‘Bonus pc e tablet‘ gestito dal Ministero dello Sviluppo Economico ed erogato attraverso Infratel Italia. Il bonus permette alle famiglie con scarsa digitalizzazione di sfruttare un voucher di 500 euro per il potenziamento o acquisto della connessione a internet (200 euro) e per l’acquisto di computer e tablet (300 euro). I dati rilevati da Consumerismo no profit sottolineano però come solamente il 40% dei 200 milioni stanziati per il progetto risulta essere stato effettivamente utilizzato, tra il 33,5% richiesto e il 6,5% ‘prenotato’.

Anche la Commissione europea si è mossa in questo senso attraverso il Piano d’azione per l’istruzione digitale (2021-2027). Esso prevede, in primo luogo, la promozione dello “sviluppo di un ecosistema altamente efficiente di istruzione digitale” attraverso il dialogo tra gli Stati Membri, l’interconnessione tra le scuole e un piano di trasformazione digitale inerente ai progetti di Erasmus. In secondo luogo, il Piano mira allo sviluppo delle “competenze e [delle] abilità digitali necessarie per la trasformazione digitale” di base per bambini e ragazzi, e avanzate nell’investimento sul numero di futuri digital specialists. In generale, l’idea alla base del progetto europeo è l’intervento in tre macroaree che comprendano il fare un uso migliore della “tecnologia digitale per l’insegnamento e l’apprendimento”, la capacità di “sviluppare competenze e abilità digitali” e “migliorare l’istruzione mediante un’analisi dei dati e una previsione migliori”.

Sebbene, quindi, nella teoria e nei progetti, la DAD sia vista come un’opportunità, a livello pratico le critiche, i problemi e il conseguente inasprimento delle diseguaglianze sono drasticamente presenti. La stessa Commissione europea, attraverso la commissaria all’Innovazione Mariya Gabriel, ha affrontato la delicata questione della mitigazione delle disuguaglianze tra i bambini, proponendo un frequente e costante contatto tra i 27 Paesi e assicurando le infrastrutture digitali.

Secondo i dati dell’UNESCO, circa 3,6 miliardi di persone non hanno accesso a internet e 250 milioni di bambini sono quindi impossibilitati a frequentare la scuola. Inoltre, anche nei Paesi più sviluppati, solo il 90% degli studenti ha avuto accesso all’educazione digitale e persino in Europa il 32% dei ragazzi non ha potuto accedere all’istruzione per mesi. Il divario digitale si è quindi acuito con il progredire della pandemia, tanto da portare il Parlamento Europeo a chiedere di triplicare il bilancio di Erasmus+ e di destinare parte dei fondi del Recovery Plan e della spesa pubblica di ogni Stato membro all’investimento nell’istruzione.

A spaventare, però, non è solamente l’ineguaglianza negli strumenti digitali. A giocare un ruolo fondamentale nell’apprendimento in DAD è, infatti, anche la competenza dei professori nell’adoperare le risorse digitali disponibili. Se è vero che, secondo l’indagine di Global Campaign for Education Italia, l’80% degli insegnanti definisca la modalità di scuola a distanza come un ‘moltiplicatore di diseguaglianze‘ e affermi che il 60% degli studenti sia rimasto indietro nei compiti e nello studio, è altrettanto indicativo il dato offerto dai ricercatori di OCSE Pisa. Secondo quest’ultimi, in media nei Paesi OCSE solo il 65% dei professori possiede le conoscenze e le abilità necessarie per consentire un corretto svolgimento delle lezioni a distanza. Ancora una volta è significativa la differenza tra i Paesi analizzati e tra le stesse scuole prese in considerazione: se in Svezia l’89% degli studenti frequentanti scuole avvantaggiate è stato in grado di sfruttare le risorse per l’e-learning, mentre solamente il 54% dei ragazzi iscritti a scuole svantaggiate ha avuto la possibilità di fare altrettanto, in Brasile le ineguaglianze si inaspriscono ulteriormente e, se nelle scuole privilegiate il 68% degli studenti ha potuto praticare la DAD, solamente il 10% dei compagni frequentanti altre scuole ha potuto replicare.

Il problema persiste perciò in tutto il mondo e necessita di interventi statali in grado di spostare la bilancia verso la riduzione delle disuguaglianze, messe a nudo dall’inattesa condizione d’isolamento. Esse si sono rivelate in tutte le loro sfaccettature in ogni Paese del mondo, ma in alcuni più degli altri, nonostante esperienze coloniali passate condivise in uno stesso continente, per altro.

Geopolitica delle disuguaglianze: il potere dell’istruzione per l’egemonia statale

Per osservare come l’educazione possa plasmare le influenze geopolitiche è paradigmatico considerare la Francia e il Regno Unito. I due gemelli diversi nella corsa al continente africano e alla conseguente decolonizzazione, avvenuta rispettivamente secondo due processi molto differenti, necessitano di essere messi a confronto, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto dell’educazione, strumento imprescindibile di egemonia politica. Francia e Regno Unito hanno reagito in maniera nettamente differente sia nelle ex colonie, che sul proprio territorio nazionale, mettendo in pratica due strategie quasi agli antipodi l’una dall’altra.

Il governo di Londra ha messo in evidenza, nel rapporto denominato “A Global Strategy for UK”, l’importanza del settore educativo per una grand strategy improntata allo sviluppo nel lungo periodo, nell’ottica della terza rivoluzione industriale, la cosiddetta Green Revolution. Quest’ultima necessita naturalmente di una manodopera estremamente specializzata e quindi di percorsi educativi d’eccellenza che siano all’altezza. In questa direzione, dovranno essere attirati gli investimenti provenienti dall’estero ed è proprio in quest’ottica che il primo ministro britannico, Boris Johnson, ha voluto implementare il Global Talent Visa, un progetto di selezione dei talenti stranieri al fine di garantire al proprio Paese un flusso migratorio in entrata altamente istruito nel campo della finanza e nella nuova frontiera Science & Technology. Questi due settori sono in stretta integrazione con gli apparati militari per la difesa e la sicurezza del Regno Unito, mediante l’ausilio del nuovissimo Office for Talent. Tale nuova istituzione si occuperà di una Graduate Route semplificata al fine di garantire un lavoro sicuro e più accessibile rispetto al passato e, al tempo stesso, selezionare le eccellenze in grado di arricchire il valore della nazione. 

Se questo virtuoso progetto pare essere una delle punte di diamante della strategia post-Brexit di Boris Johnson, l’istruzione primaria risulta però essere stata messa a nudo nelle sue fragilità con l’avvento del Covid. Secondo uno studio del British Educational Research Association – basato su sondaggi, interviste, analisi di dati e documenti – la stratificazione  sociale e la diseguaglianza che ne è conseguita si è manifestata brutalmente nella percentuale di professori che hanno manifestato preoccupazione per la possibilità dei propri alunni di procurarsi i mezzi necessari per la didattica a distanza. Il ruolo delle scuole primarie nelle periferie delle grandi città e nelle piccole comunità rurali sono un punto di riferimento fondamentale, la cui mancanza si è fatta sentire particolarmente durante i lockdown, esacerbando le diseguaglianze economiche e sociali. 

In quanto a queste ultime, in particolare quella tra sessi e di orientamento sessuale, la Global Strategy mira a trasformare il Regno Unito nella meta mondiale per eccellenza per benessere e rispetto dei diritti LGBTQ+ anche e soprattutto per i migranti provenienti dalle ex colonie. Tra queste, vi è, per esempio, il Kenya, Paese nel quale l’influenza britannica, nonostante la decolonizzazione tramite la nascita del Commonwealth, si riproduce ancora sotto forma di investimenti nell’educazione delle donne al fine di ridurre le diseguaglianze formative e culturali tra diversi sessi e orientamenti sessuali. Proprio a luglio 2021, Londra – in partnership con il governo di Nairobi – ospiterà il Summit per l’educazione globale, dedicando l’interesse a questo aspetto fondamentale per porre le basi di un’egemonia politica orientata all’uguaglianza di genere in Kenya, Paese giudicato dalle stime dell’Institute Choiseul uno dei più promettenti per una svolta tecnologica e industriale, oltre ad essere imprescindibile da un punto di vista geopolitico per la sua strategica posizione nei pressi del Corno d’Africa. 

L’indipendenza kenyota risale al 1963, ma fu già negli anni ‘20 che le prime tensioni tra autoctoni e colonizzatori iniziarono a venire a galla. Esse furono, poi, assecondate con un graduale disimpegno formale della Corona Britannica, tale da facilitare la trasformazione del Kenya da colonia dell’ex Impero Britannico a dominion nel 1962. Infine, l’anno successivo, Nairobi ottenne definitivamente l’indipendenza sotto la forma di una vera e propria repubblica, onde evitare un aggravarsi della memoria negativa da parte degli indigeni rispetto ai britannici. Tuttavia, nei successivi decenni, tale disimpegno ha lasciato un vuoto culturale che, con l’ascesa degli jihadisti di Al Shabaab in Somalia, emersi dal collasso delle antiche corti islamiche, è stato colmato dai Paesi vicini, già devastati dalle violenze interne e dal terrore dell’islamismo radicale. L’unica arma contro la macchina propagandistica di Al Shabaab è stata proprio l’educazione, riscoperta come strumento in grado di sortire i suoi effetti nel medio-lungo periodo, e con alla base ingenti investimenti in infrastrutture e preparazione del personale.

Se appunto Londra ha storicamente fatto un passo indietro in anticipo, mantenendo però influenze economiche e culturali, altri Paesi hanno scelto la strada inversa. Basti pensare alla Francia e alla sua Algeria. Il dominio militare francese, terminato con l’indipendenza algerina nel 1962, ha forgiato uno Stato fortemente attaccato a una memoria negativa del Paese colonizzatore. Infatti, proprio negli anni successivi al 1962, i cosiddetti “pieds-noirs” – ex coloni di origine europea e/o francese in Algeria – vennero espulsi dal Paese sotto il governo del Front de Libération Nationale e rimpatriati in Francia dove vennero ghettizzati secondo una politica di esclusione, che affonda le sue origini nella nascita della colonia algerina sotto il dominio di Parigi iniziato nel 1830. 

Da Napoleone III sino a pochissimi anni fa, non è stata attuata nessuna politica di integrazione efficace per i migranti provenienti dalle colonie – che fossero questi pieds-noirs o autoctoni in cerca di fortuna nella prospera Francia – preferendo di fatto che le diseguaglianze culturali, religiose e soprattutto economiche di questi ultimi si concentrassero nelle banlieue. Le periferie sempre più al giorno d’oggi risultano essere le roccaforti di un sentimento anti colonialista che statisticamente si sposa con un radicalismo islamico di matrice wahabita e salafita (correnti ideologiche interne alla più generale tipologia sunnita). La haine (lit. “odio”) razziale e religiosa è anche il frutto delle poche risorse economiche e infrastrutturali che le minoranze hanno nelle periferie, dove l’ultimo appiglio per lo Stato francese sono le scuole pubbliche, uniche in grado di contrastare l’influenza pregnante del radicalismo religioso mediante l’insegnamento di valori democratici. 

Addirittura, nel 2005, fu introdotta la celebre Legge sul Colonialismo, la quale disponeva l’insegnamento dei valori positivi del colonialismo francese. Il testo legislativo fu fortemente criticato dall’opposizione e dai discendenti dei pieds-noirs con il “risveglio delle banlieues”, ossia proteste violente che portarono a quasi tremila arresti, 126 poliziotti feriti, 3 morti, ottomila veicoli dati alle fiamme e più di 300 città coinvolte. E’ in questo contesto delicatissimo che si collocano le proteste e gli attentati degli anni recenti e la proposta del Presidente dell’Eliseo di una riforma costituzionale finalizzata a laicizzare l’Islam in Francia – sottraendolo all’influenza di avversari geopolitici e culturali quali Turchia, Tunisia e Marocco. La riforma vorrebbe introdurre percorsi di formazione statali per gli Imam e l’introduzione dell’arabo come seconda lingua di Stato al fine di ridurre le possibilità di faglie etniche, culturali, economiche e religiose. 

Queste dinamiche si sommano ai vari isolamenti forzati da COVID-19 che hanno però visto in Francia, contrariamente a quanto accaduto in Gran Bretagna, le scuole restare aperte, in quanto punti di riferimento sociale. E’ evidente come Emmanuel Macron, e chiunque dopo di lui, si occuperà prima dei problemi interni nella ex colonia algerina, dove il fallimento della politica, in primis, di assimilazione e poi di rieducazione valoriale della prole colonizzata ha causato una frattura sociale di portata secolare. 

Conclusioni


Troppo spesso si tende a sottovalutare l’aspetto educativo nelle dinamiche geopolitiche e di politica interna, traendo conclusioni affrettate e ideologiche su temi divisivi, inevitabili in società pluraliste come quelle analizzate. Se in Italia l’omogeneità culturale e la forte presenza delle istituzioni nell’implementazione di valori, come la tolleranza e sensibilizzazione contro le discriminazioni, ha salvato la popolazione da fratture culturali e religiose – nonostante l’azione catalitica della pandemia nel processo di denaturazione di problemi irrisolti – così non è accaduto in Francia. La poca lungimiranza in tema di integrazione – e quindi di educazione – si è estrinsecata nel tentativo forzato di assimilazione del popolo algerino all’idea occidentale di “francese ideale”, creando una faglia etnica e culturale che oggi porta Emmanuel Macron a confrontarsi politicamente con una frangia dell’esercito, convinta della necessità di “applicare senza debolezze leggi [nazionali] pre-esistenti” per ristabilire l’ordine nelle banlieues, onde evitare una guerra civile. Questo è il contenuto delle due lettere pubblicate sulla rivista francese di estrema destra Valeurs Actuelles, firmate da numerosi ex generali e appoggiata da una consistente parte dell’esercito, oltre che dalla destra di Marine Le Pen, unica eccezione nell’arena politica francese che non abbia condannato il contenuto delle lettere. Seppur un golpe militare risulti improbabile, questo è sintomatico della divisione ideologica interna alla Francia come conseguenza dei fallimenti nelle politiche di integrazione e assimilazione. Il vicino londinese d’oltremanica, invece, ha seguito una strategia completamente differente, quasi antitetica, proiettando nelle ex colonie un’influenza culturale voluta dalla globalizzazione, muovendosi d’anticipo e prevenendo, almeno in teoria, problemi d’integrazione provenienti da oltre confine. Infatti, Downing Street vuole evitare in qualsiasi modo lo sviluppo di un ulteriore fronte interno, che andrebbe a sommarsi a quelli della Scozia e dell’Irlanda del Nord del post-Brexit. Questa è la portata dell’educazione nella storia dell’umanità, ed è bene tenerlo a mente.

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