In Papua Nuova Guinea si è verificato l’ennesimo episodio di violenza legato ad accuse di stregoneria. Lo scorso 25 aprile, due donne della provincia di Eastern Highlands sono state torturate da più di venti uomini in un edificio a cinque miglia dalla capitale del paese, Port Moresby. Dopo essere riuscita a scappare, una delle due vittime ha rivelato alle forze dell’ordine di essere stata sottoposta a un lungo interrogatorio da parte dei suoi aguzzini, al fine di estorcere una confessione riguardo alla recente morte di una donna della stessa comunità. Oltre ad essere state oggetto di violente percosse, le due superstiti hanno riportato tagli profondi e gravi ustioni. Tutti i carnefici sono riusciti a scappare prima dell’arrivo della polizia, che ha però dichiarato di essere a conoscenza della loro identità.

Diverse figure politiche e delle forze dell’ordine hanno espresso la loro delusione e lo sconforto per l’accaduto. Supt Gideon Ikumu, governatore del National Capital District (NCD), dove risiede la capitale, ha dichiarato di essere “inorridito di fronte al fatto che alcuni uomini continuino a macchiarsi di queste pratiche al giorno d’oggi”. Anche il comandante di divisione del NCD, Anthony Wagambie Jr, ha sottolineato la natura retriva di tali dinamiche, condannandone l’inconciliabilità con la moderna e progressista società della capitale. Tuttavia, l’antropologa Miranda Forsyth scrive che la violenza legata ad accuse di stregoneria non va interpretata come un barbaro retaggio del passato, ma piuttosto come una disfunzione di componenti essenziali dell’attuale configurazione sociale: povertà, disuguaglianza, normalizzazione della violenza. Alla luce di ciò, la condanna mossa da parte del mondo delle istituzioni si taccia di una valenza più simbolica che reale, la scelta delle parole usate tradisce la mancata comprensione di un fenomeno complesso, dalle molteplici sfaccettature.
Nel suo appello, il governatore aveva sollecitato le persone vicine alle vittime a presentarsi in commissariato per fornire una dichiarazione sull’accaduto. Un simile approccio rivela la mancata consapevolezza del fatto che molto spesso i seviziatori appartengono all’ambiente intimo delle vittime. Secondo uno studio commissionato dal Dipartimento degli Affari del Pacifico, nel 31% delle violenze documentate nel territorio di Port Moresby, i perpetratori hanno legami di sangue con le vittime. Ad apparire determinante è quindi la dimensione sociale collettiva, piuttosto che quella psicologica individuale. In diversi casi, questi crimini sono stati commessi proprio nello spazio pubblico, di fronte allo sguardo indifferente di una comunità che non soltanto assolve, ma anche approva.
Nonostante l’alta frequenza di casi di violenza legata ad accuse di stregoneria, le condanne appaiono estremamente limitate. A questo proposito, The Diplomat ha citato uno studio condotto dall’Australian National University che ha dimostrato come in venti anni, su 1400 casi di tortura e 600 omicidi, meno dell’1% dei colpevoli è stato effettivamente condannato. In primo luogo, la causa di questa tendenza va cercata nel fatto che solamente una minima percentuale delle violenze viene poi traslata in effettive denunce. Le vittime si mostrano reticenti all’affidarsi ai membri del corpo di polizia, che spesso aderiscono al sistema di pensiero che avvalora la caccia alle streghe. Anton Lutz, un missionario americano operante in Papua Nuova Guinea, spiega come molto spesso le persone superstiti non ricevono un’assistenza medica adeguata se affidate al personale sanitario appartenente alla stessa comunità, e soggetto alle medesime influenze. Inoltre, in assenza di un programma di protezione per i testimoni, molti di questi vengono trattenuti dal timore di poter essere a loro volta oggetto vittima di violenze.
Secondo il Time, la persistenza della credenza nella stregoneria, localmente conosciuta con il termine “sanguma”, viene spiegata con la rapida imposizione degli standard occidentali sui riti ancestrali, caratterizzata dall’assenza di momenti di ripensamento endogeno della società papuana. Il periodo coloniale ha portato alla commistione degli usi e dei costumi, permettendo la fede in una narrazione ibrida alimentata tanto da esperienze autoctone che dal culto cristiano. Ancora oggi, gran parte della popolazione, inclusi i segmenti più educati, si rifugiano nella narrazione della sanguma per spiegare determinati fenomeni. L’aumento dei casi di violenza legata ad accuse di stregoneria è intrinsecamente connesso a un processo di progresso che non tiene conto dell’idea di sviluppo sostenibile, onnicomprensivo, ed egalitario.

La crescita delle metropoli e l’acuirsi della povertà nelle zone rurali ha portato alla migrazione di individui che, una volta spezzato il legame con i sistemi di giustizia locali, sviluppano un’alta tendenza alla vulnerabilità di fronte a varie forme di istigazione alla violenza. L’accusa di stregoneria può essere mossa tanto dai membri della comunità stessa, quanto da “cacciatori di streghe”, uomini che vengono pagati per indicare la persona da colpire. La componente socio-economica e quella di genere svolgono un ruolo cardine anche nella costruzione della minaccia all’ordine sociale. Tendenzialmente, l’accusa viene mossa verso individui che non hanno cucito un solido legame con la comunità, e quindi donne migranti provenienti dalle zone rurali, o verso coloro che appaiono privi di risorse, come donne rimaste vedove e con bambini a carico.
L’antropologo Richard Eves precisa come il difficile accesso a programmi educativi e a cure mediche sia sfociato nella cristallizzazione di una dinamica antropologica frequente, quella che porta le comunità a ricercare un capro espiatorio da incolpare per morti o malattie improvvise e dalle cause incerte. Seguendo questo ragionamento, è utile menzionare che, per opera del processo di globalizzazione, il territorio tende a sperimentare in maniera sempre più diffusa disturbi e malattie sconosciuti alla popolazione, come HIV/AIDS e diabete, che vengono appunto giustificati con ragionamenti ascientifici.
Solamente nel 2013, il Parlamento aveva abolito la controversa Legge sulla stregoneria del 1971, la quale stabiliva che in caso di omicidio, se la persona uccisa fosse stata accusata di stregoneria, la persona accusata di omicidio avrebbe potuto beneficiare di un’attenuante. Nella stessa seduta è stato anche stabilito che gli omicidi legati all’accusa di stregoneria possono essere puniti con la pena di morte. Per tentare di arginare l’espansione del fenomeno, nel 2015 il governo ha lanciato il Sorcery National Action Plan, un’iniziativa onnicomprensiva basata sulla promozione di consapevolezza, tutela della salute, protezione, e ricerca. Ad oggi, la mancanza di un finanziamento adeguato per l’implementazione del progetto e dei fondi necessari per sostenere l’apparato della giustizia rappresenta lo scoglio principale nella risoluzione del problema.
Così, ad oggi, la caccia alle streghe sembra un fenomeno ancora lungi dall’essere superato. Un fenomeno che è innanzitutto espressione di tanti fattori concomitanti, non solo culturali, ma anche e soprattutto economici – povertà in primis – e sociali, dalla diffidenza verso gli emarginati all’impatto della globalizzazione sugli equilibri interni alle comunità. Se si intende giungere a una soluzione concreta di questa situazione complessa occorrerà allora tenere conto di tutte queste cause a loro volta complesse, sforzandosi di non cadere nella comoda tentazione di banalizzare il male.
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