I primi mesi di Joe Biden come presidente degli Stati Uniti sembrano già lasciare intuire quali saranno in politica estera i punti di contatto e di discontinuità con le strategie del predecessore Donald Trump. Gli occhi sono puntati, in primis, sui rapporti con Russia e Cina. Per quanto riguarda la prima, Biden, rispondendo alle domande di George Stephanopoulos di Abc che lo intervistava, ha accusato Vladimir Putin di essere un assassino. Tale dichiarazione sembra presagire un inasprimento delle relazioni con Mosca, segnando una rottura con quello che invece era stato l’approccio di Trump nei confronti del Cremlino. Peraltro, secondo Putin, già durante la campagna elettorale del 2020, Joe Biden aveva tenuto un forte tono anti-russo. Più continuità sembra, d’altro canto, esserci tra Biden e Trump circa le relazioni con Pechino, anche se, come sottolinea un’analisi dell’Ispi, con una certa divergenza riguardante i mezzi.

Sul tavolo del Presidente, tuttavia, in questo momento non premono solo i dossier relativi ai rapporti con Russia e Cina. Un altro fronte internazionale che si è subito imposto in cima all’agenda di politica estera della nuova Presidenza è quello dell’Afghanistan. Ne è prova di ciò la circostanza che il 21 marzo ha visto Lloyd Austin, attuale Segretario alla Difesa statunitense, recarsi in Afghanistan per un incontro con il presidente del Paese, Ashraf Ghani. Austin era di ritorno da un viaggio in India quando ha deciso, in modo in realtà non preventivato, di fare tappa a Kabul.
Il 2021 potrebbe essere un anno cruciale per le relazioni tra i gli USA e l’Afghanistan, e per quest’ultimo in generale, anche in considerazione degli storici accordi che Donald Trump aveva siglato l’anno precedente con i Talebani. La nuova amministrazione Biden deve però valutare se e in quale misura rispettare quei patti, in ragione dell’attuale situazione nel Paese asiatico.
L’accordo in questione era stato siglato nel febbraio del 2020 a Doha, in Qatar durante l’amministrazione Trump. Le delegazioni di Stati Uniti e Talebani erano guidate, rispettivamente, dall’inviato della Casa Bianca Zalmay Khalilzad e da Mullah Baradar, co-fondatore dei Talebani. L’accordo rappresentava “il preludio diplomatico al processo di pace vero e proprio”, e prevedeva da parte statunitense l’impegno a ritirare le proprie truppe e quelle alleate entro 14 mesi (quindi entro l’1 maggio 2021), e a ridurre entro 135 giorni dalla firma la presenza americana a 8.600 uomini; da parte talebana, quello a rinunciare ai legami con lo jihadismo internazionale, a combattere contro la branca locale dello Stato Islamico e a non ospitare organizzazioni terroristiche.
In effetti al 15 gennaio 2021, negli ultimi scampoli dell’amministrazione Trump, la presenza statunitense in Afghanistan si era ridotta a circa 2.500 unità, il livello più basso degli ultimi anni. Solo tredici giorni dopo, tuttavia, è arrivata per l’Afghanistan una prima doccia fredda: Washington, ora presieduta da Biden, ha infatti annunciato che non avrebbe completato il ritiro delle truppe dal Paese entro maggio del 2021. Le ragioni sono state spiegate da John Kirby, segretario stampa del Pentagono: “I talebani non hanno rispettato i loro impegni. Senza che rispettino i loro impegni di rinunciare al terrorismo e di fermare i violenti attacchi contro le forze di sicurezza nazionali afghane, e in forza di ciò contro il popolo afghano, è molto difficile vedere una via specifica per la soluzione negoziata”.
Il 29 gennaio è arrivata la risposta dei Talebani, secondo i quali è stata Washington la prima a violare gli accordi. Secondo Mohammad Naeem, un portavoce dei Talebani in Qatar, gli Stati Uniti “stanno violando l’intesa quasi ogni giorno. Stanno bombardando i civili, le case e i villaggi, e abbiamo ricordato loro che queste non sono solo violazioni dei patti, ma anche dei diritti umani”. Zabihullah Mujahid, altro portavoce del gruppo, ha aggiunto che le accuse degli Stati Uniti contro i Talebani erano infondate e che questi ultimi stavano rispettando del tutto l’intesa.
E’ dunque questo il quadro in cui si è svolto l’incontro tra Austin e Ghani. Il principale argomento della conversazione è stato l’aumento delle violenze che si è riscontrato negli ultimi mesi nel Paese. È stata confermata, inoltre, l’intenzione di proseguire gli sforzi per giungere a un accordo di pace definitivo. Ai giornalisti, Austin ha detto che la Casa Bianca vuole “una fine responsabile a questo conflitto”, specificando: “Ci saranno sempre preoccupazioni in un modo o nell’altro, ma penso che ci sia molta energia concentrata sul fare ciò che è necessario per una conclusione responsabile con una soluzione negoziata”.
Lo scorso 22 marzo, Naeem ha annunciato che i Talebani hanno condiviso con Washington un piano di riduzione della violenza di 90 giorni, che dovrebbe portare a una diminuzione delle azioni del gruppo. Stando a quanto affermato da Naeem, una bozza di questo piano era già stata presentata agli Stati Uniti a fine 2020, ma non aveva trovato rapida concretizzazione. Peraltro, firmando gli accordi di Doha i Talebani si erano già impegnati, tra le altre cose, a rinunciare agli attacchi su larga scala e a diminuire le violenze nel Paese.
In definitiva, sembra dunque che l’amministrazione Biden voglia proseguire il percorso iniziato dall’ex presidente Donald Trump. La strada, tuttavia, non può che essere ancora in salita, considerati i delicatissimi equilibri della politica interna afghana che minano in ogni momento gli sforzi per porre fino a un conflitto che va avanti dal 2001.