La diatriba tra Seul e Tokyo sulla questione delle comfort women si è nuovamente accesa. Poco più di due settimane fa, Lee Yong-soo, ex “donna di conforto”, ha richiesto al governo coreano e a quello giapponese di portare l’annosa questione alla Corte Internazionale di Giustizia per poterla risolvere definitivamente.
L’espressione di derivazione giapponese – composta da “comfort” (i-an) e “donna” (fu) – si riferisce in maniera eufemistica alla creazione di un sistema organizzato e generalizzato di sfruttamento sessuale “necessario a salvaguardare la salute fisica e psicologica dei propri soldati”, secondo il punto di vista giapponese. Il dramma delle cosiddette comfort women, generalmente associato al periodo del secondo conflitto mondiale, ha caratterizzato in realtà tutta la fase dell’espansionismo giapponese in Asia Orientale nei primi anni del Novecento. Secondo le stime, circa 200.000 donne provenienti principalmente dalla Corea del Sud, ma anche dalla Repubblica Popolare Cinese, da Taiwan e dal Sud Est Asiatico sarebbero annoverate tra le vittime di questi abusi. A partire dal 1991, con la prima testimonianza di Kim Hak-sun, ha preso avvio un movimento di denuncia a livello nazionale che ha portato alla luce diversi racconti, fino ad allora rimasti nell’ombra, di alcune di quelle che furono schiave sessuali al servizio dell’esercito imperiale giapponese negli anni ’30 e ‘40. Infatti, la questione ha raggiunto risonanza mondiale soprattutto grazie all’attivismo di un gruppo di ex comfort women, tra cui Kim Bok-dong, le quali ritengono di meritare più di un mero indennizzo in denaro, reclamando piuttosto le scuse pubbliche e formali di Tokyo per le violenze subite nel passato.

Sebbene il Giappone considerasse il problema già risolto con il trattato di normalizzazione dei rapporti nippo-coreani del 1965, nel 2015 venne raggiunto un ulteriore accordo tra i due Stati, con il quale si prevedeva che le scuse ufficiali del Giappone e una donazione di 1 miliardo di yen (9,6 milioni di dollari) a sostegno delle vittime ponessero “irreversibilmente” fine al caso.
L’arrivo al potere dell’esponente riformista Moon Jae-in alla guida di Seul nel 2017 ha tuttavia determinato una nuova impennata della tensione nei rapporti tra le due parti, a seguito della decisione di invalidare l’accordo del 2015. L’apice è stato raggiunto due mesi fa, successivamente alla sentenza emessa da un tribunale distrettuale sudcoreano, la quale prevede che Tokyo debba fornire un risarcimento di 100 milioni di won (91.000 dollari) a 12 donne obbligate a prostituirsi nei bordelli militari del Giappone imperiale. Questa sentenza rappresenta il primo caso in cui un tribunale nazionale ha giudicato le autorità nipponiche responsabili di un crimine contro l’umanità commesso “sistematicamente, deliberatamente ed estensivamente”. La risposta di Tokyo non si è fatta attendere e il segretario generale di gabinetto, Katsunobu Kato, ha dichiarato “inaccettabile” il verdetto, in quanto violerebbe la norma sull’immunità – che esenta uno stato sovrano dall’essere citato a giudizio da un altro stato sovrano – prevista dal diritto internazionale. Sulla scia di questa sentenza storica, lo scorso 16 febbraio Lee Yong-soo, ex comfort woman e attivista per i diritti umani, ha così rilasciato una dichiarazione che pone ulteriore pressione sulle relazioni tra Tokyo e Seul. La sua richiesta rivolta al governo sudcoreano di risolvere il caso dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia sembra essere però un’ipotesi poco plausibile, dato che già nel 2019 fallì il tentativo dei due stati di ricorrere all’organo giudiziario delle Nazioni Unite per risolvere la questione riguardante il lavoro forzato di alcuni cittadini sudcoreani all’interno di industrie giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale.
Sebbene i due vicini asiatici non possano fare a meno di cooperare sul piano strategico ed economico, con il passare degli anni le relazioni bilaterali tra Seul e Tokyo sono andate deteriorandosi.

Il problema resta dunque di carattere politico prima ancora che umano: sebbene le vittime abbiano diritto a un risarcimento a tutto tondo, infatti, la diatriba potrebbe turbare ulteriormente i fragili equilibri politici tra i due Stati. A livello istituzionale, ci si chiede per quanto tempo ancora i crimini di guerra commessi durante l’era coloniale giapponese continueranno a definire i rapporti odierni tra il Giappone e i paesi circostanti.
I retaggi dei crimini di guerra costituiscono ancora ad oggi un campo minato difficile da neutralizzare: a meno che non si proceda, come auspicato, alla giurisdizione contenziosa della CIG, l’assunzione di colpa e il conseguente risarcimento derivano solamente dalla volontà dello Stato stesso – recente caso dei Paesi Bassi. La risoluzione della controversia gioverebbe certamente una volta per tutte non solo alle ex comfort women, ma anche agli stessi rapporti bilaterali già tesi tra i due vicini asiatici. Tuttavia, da un lato il Giappone si trova a dover gestire un’eredità bollente e una demonizzazione costante sotto i riflettori mai apprezzati dall’orgoglio nipponico, dall’altro la Corea del Sud è tenuta a dissipare le fondate richieste delle vittime che ricercano una giustizia latente. Sarà dunque necessario per la tregua che entrambe le parti guardino al futuro desiderose di lasciarsi il passato alle spalle, riproponendo un accordo privato come quello stipulato nel 2015 per consentire a queste donne, per la prima volta, di essere confortate anch’esse.