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Myanmar: il colpo di Stato e il reflusso autoritario

mmbyVirginia Orsili
Marzo 4, 2021
in Sud e Sud-Est Asiatico
Reading Time: 7min read
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Myanmar: il colpo di Stato e il reflusso autoritario

Il processo di transizione verso la democrazia in Myanmar è stato bruscamente interrotto da un colpo di stato messo in atto dall’esercito del paese, il Tatmadaw. Come riportato dalla BBC, lo scorso primo febbraio i principali esponenti del partito di maggioranza al governo, la Lega Nazionale per la Democrazia (LDN), inclusi la consigliera di Stato, Aung San Suu Kyi, e il presidente, U Win Myint, sono stati arrestati. La carica presidenziale è stata formalmente affidata al vice-presidente Myint Swe, che gode dell’approvazione del corpo militare e in particolar modo del suo generale, Min Aung Hlaing, che esercita de facto il controllo sul Paese. 

Questa misura estrema è stata giustificata con l’accusa di brogli elettorali mossa nei confronti della LDN proprio dai capi dell’esercito. Alle elezioni dello scorso 8 novembre, infatti, il partito dell’ex primo Ministro Suu Kyi aveva ottenuto una vittoria schiacciante, aggiudicandosi l’83% dei voti, un risultato interpretato come l’esito della transizione democratica inaugurata nel 2011. Secondo i fautori del golpe, tuttavia, tale risultato sarebbe stato ottenuto tramite ricorso a pratiche illegali più che all’effettivo sostegno popolare.  

Nonostante l’apertura democratica che aveva messo fine ad un lungo periodo di assoggettamento al sistema militare, la Costituzione del Myanmar continua a garantire importanti privilegi alle forze dell’esercito birmano, tra cui il controllo di tre ministeri chiave – Difesa, Immigrazione e Affari Interni – nonché un terzo dei seggi in Parlamento. Inoltre, il testo costituente stabilisce che, in caso di minaccia alla sicurezza nazionale, i militari possano intervenire dichiarando lo stato di emergenza. Il generale dell’esercito, Min Aung Hlaing, ha deciso di appellarsi all’articolo 417 della Costituzione del 2008 al fine di concentrare nelle sue mani il potere esecutivo, legislativo e giudiziario per la durata di un anno, al termine del quale verranno indette nuove elezioni. 

Come illustrato dal Council on Foreign Relations, questa deriva appare tanto più minacciosa se si considera che l’ultima volta che il Myanmar è stato teatro di un colpo di stato, i militari sono riusciti a monopolizzare il controllo del paese per 50 anni. Nel 1962, infatti, il generale Ne Win instaurò la dittatura socialista, rimasta in auge fino alle rivolte del 1988. Ѐ proprio in questo anno che, in nome della lotta per una pacifica metamorfosi democratica e per il riconoscimento dei diritti civili e politici dei cittadini del Myanmar, nacque la Lega Nazionale per la Democrazia. Sotto l’egida di Aung San Suu Kyi, il partito ottenne un importante risultato alle elezioni del 1990, che tuttavia non fu mai riconosciuto. Il Consiglio di Stato per la Pace e lo Sviluppo, l’organismo ad hoc creato per governare il paese durante la dittatura militare, rifiutò infatti di cedere il comando, garantendo al Tatmadaw la reggenza indiretta del Myanmar ed arrestando i leader della LDN. Suu Kyi fu quindi costretta alla detenzione per ben 15 anni nel periodo che va tra il 1989 e il 2010, per essere infine esclusa dalle successive elezioni del 2011, le quali tuttavia fecero emergere uno scenario fraudolento che fece crollare la giunta militare. Solamente nell’anno successivo con l’elezione del ex-generale Thein Sein furono implementate una serie di riforme mirate alla liberalizzazione del mercato nazionale, alla garanzia dell’amnistia ai prigionieri politici e alla protezione della libertà di espressione. 

Dal 2015, Aung San Suu Kyi è la guida de facto del Paese. La BBC ha tuttavia evidenziato come, una volta assunto l’incarico politico, la leader è stata criticata a livello internazionale per aver utilizzato leggi dell’era coloniale per la violazione dei diritti di attivisti e giornalisti nel paese, nonché per l’inedita accondiscendenza riservata ai militari e per la mancata tutela delle minoranze etniche, prime su tutte i Rohingya.

In seguito al colpo di stato, le autorità elette dal popolo hanno tempestivamente lanciato l’allarme di violazione dei principi democratici, invocando la mobilitazione popolare. Secondo la denuncia di Human Rights Watch, questo dinamismo delle proteste si è però tristemente tradotto in una sistematica violazione dei diritti umani da parte del Tatmadaw tramite ricorso a privazione di libertà, censura, e uso sproporzionato della forza. La comunità internazionale si era già distinta per un sistematico immobilismo nella tutela dei diritti umani, in modo particolare con riferimento al mancato intervento nella gestione della crisi dei Rohingya, per altro perpetrata sotto l’egida delle stesse forze responsabili del golpe. Nonostante due processi giudiziari siano attualmente in corso presso la Corte Penale Internazionale (ICC) e la Corte Internazionale di Giustizia (ICJ), la rivista Opinio Juris ha evidenziato come sia molto improbabile che la nuova giunta – la quale è strettamente collegata con i crimini di genocidio di cui il Myanmar è accusato – adotti un atteggiamento diverso nei confronti dei Rohingya.

Come enfatizzato dalla rivista Limes, la Cina gioca inoltre un ruolo non secondario nell’appoggio all’esercito del Myanmar, centro di numerosi interessi nella regione. In primo luogo, la collocazione geografica del Paese assume una valenza strategica in quanto porta di accesso diretta all’Oceano Indiano, in alternativa allo stretto di Malacca – sotto il controllo degli Stati Uniti. Un passaggio potenzialmente chiave nell’ambito della moderna via della seta – meglio nota come Belt and Road Initiative – che collega la Cina ai suoi partner commerciali nella regione eurasiatica e più in generale nella gestione delle frontiere. Grazie alla notevole disponibilità mineraria ed energetica, il Myanmar si configura inoltre come vettore di diversificazione dell’approvvigionamento della Repubblica Popolare Cinese, la quale si erige in questo modo a principale partner economico del paese. Infine, l’alleanza geopolitica tra i due paesi si rivela funzionale all’edificazione del soft power cinese sulla regione. Nel processo di istituzionalizzazione della Pauk-Phaw, la cosiddetta fratellanza sino-birmana, la Cina potrebbe anche giocare un ruolo decisivo utilizzando il suo potere di veto in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, al fine di impedire l’adozione di una risoluzione nel tentativo di mettere un freno alla deriva autoritaria del Tatmadaw. 

Diametralmente opposta la reazione della neo insediata amministrazione statunitense. Come riportato da Reuters, il presidente Biden ha già richiesto l’immediato rilascio dei funzionari politici e la sospensione dello stato di emergenza, minacciando l’imposizione di sanzioni ai fautori del colpo di stato.  

Il golpe da parte del Tatmadaw presenta affinità con il passato autoritario del Paese  e va a riaprire una ferita non ancora completamente rimarginata nella storia collettiva del Myanmar, minandone la giovane e precaria apertura democratica. Nonostante le singole battaglie perse, l’esercito è riuscito negli anni a ritagliarsi uno spazio privilegiato nell’arena di potere nazionale, e ha saputo sfruttare a proprio vantaggio l’occasione fornita dalla chiamata alle urne, massima celebrazione al contempo simbolica e sostanziale della transizione democratica. Se per la comunità internazionale i fatti recenti si aggiungono ad una consistente storia di violazione dei diritti civili e sociali dei cittadini, per l’opinione interna un tale avvenimento potrebbe tradursi in un’occasione per svelare, in maniera netta e decisa, le tante falle di un passaggio democratico decantato, ma non ancora raggiunto.

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Tags: Aung San Suu KyiCinacolpo di statoMyanmarRohingyaTatmadaw
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