A seguito delle elezioni presidenziali del 27 dicembre scorso, la Repubblica Centrafricana sta attraversando un nuovo ciclo di violenza, intavolato da un’alleanza ribelle al fine di destabilizzare il nuovo governo. Denominata la Coalizione dei patrioti per il cambiamento (CPC), suddetta alleanza è formata da sei gruppi di ribelli armati, di cui alcuni precedentemente rivali, ed è supportata dall’ex-presidente François Bozizé. La perpetrazione degli attacchi si è intensificata contestualmente al rifiuto da parte della Corte Costituzionale centrafricana di accettare la candidatura di Bozizé alle elezioni, in quanto mancante del requisito di “buona moralità”: sulla base di un mandato di cattura internazionale e di sanzioni dell’ONU, sarebbe infatti imputato di presunti omicidi e torture.
Nel 2003, il generale Bozizé prese il potere con un colpo di stato contro l’allora presidente Ange-Félix Patassé e venne successivamente eletto capo di Stato nel 2005 e confermato nel 2011, nonostante le accuse di brogli elettorali. Fu poco dopo, nel 2013, che si formò il gruppo armato di ribelli Séléka (lit. “coalizione” in lingua sango). Di prevalenza musulmana e originario della parte settentrionale del paese, il gruppo nacque dall’insofferenza della minoranza che nella storia centrafricana è stata troppo spesso marginalizzata. In seguito ai continui crimini commessi dai Séléka anche contro i civili, nacque il gruppo di ribelli Anti-balaka, prevalentemente cristiani, sorto per contrastare la milizia musulmana. Oggi, a due mesi dall’avvenuta elezione del presidente Faustin-Archange Touadéra, i due gruppi si trovano fianco a fianco insieme a Bozizé, in una sorprendente alleanza contro il nuovo governo.
La Repubblica Centrafricana è controllata per due terzi dai ribelli. Con circa 200.000 sfollati provocati dagli attacchi negli ultimi due mesi e oltre metà della popolazione dipendente dagli aiuti umanitari, la nuova ondata di conflitto spinge il paese in una crisi che ha pochi eguali nel mondo. Proprio a fronte di questa situazione, è importante conoscere le cause del conflitto che da quasi dieci anni affligge il paese.

Secondo un report dell’Institute for Justice and Reconciliation, le radici del conflitto si ritrovano in dinamiche strutturali. Innanzitutto, la storia coloniale e la mancanza di una narrativa comune hanno favorito lo sviluppo delle odierne divisioni etniche. In quanto colonia francese fino al 1960, l’amministrazione della Repubblica Centrafricana fu infatti lasciata nelle mani di compagnie private che ne sfruttarono le risorse umane e territoriali in base ad una logica di profitto, firmando accordi secondo i bisogni del momento con le tribù locali. Tale dinamica ha causato, da un lato, la frammentazione della popolazione in circa 80 gruppi etnici e, dall’altro, la marginalizzazione economico-politica dei gruppi musulmani dell’area nord, a lungo esclusa dagli investimenti.
Un’altra causa alla base del conflitto centrafricano è stato il perdurare dell’esternalizzazione della governance e la regionalizzazione della sovranità, sostituendo così il contratto sociale stato-cittadini con la dipendenza da attori esterni. In tal modo, influenti paesi vicini sono stati spesso in grado di influenzare, o addirittura determinare, la politica della nazione. Primo fra tutti il Ciad, il cui presidente Idriss Déby fu lo stesso che nel 2003 mise al potere Bozizé e che supportò i Séléka nel colpo di stato del 2013 che depose lo stesso Bozizé. Parallelamente, il governo centrafricano affida concessioni ad attori internazionali, come milizie o compagnie minerarie, piuttosto che investire nel paese. Le organizzazioni internazionali, inoltre, sono coloro che assicurano i servizi di base al posto dello stato.
Infine, alla radice della ciclicità del conflitto, vi è la presenza di imprenditori politico-militari, che sfruttano la violenza per ottenere potere politico e profitti, soprattutto grazie al controllo dei ribelli sulle ricche risorse naturali del paese, quali oro, diamanti e uranio. A questo proposito il governo centrafricano ha siglato una serie di accordi con la Russia con l’obiettivo di riprendere il controllo sui profitti di tali risorse per la ricostruzione del paese. Tuttavia, la Russia sta ricoprendo un ruolo ambiguo, stringendo accordi sia con i ribelli che con il governo per avere il permesso di condurre “esplorazioni minerarie”.
Risulta quindi chiara la necessità di attuare azioni politiche ed economiche volte a risolvere queste problematiche, lasciate per troppo tempo insolute.

Un primo passo verso la risoluzione del conflitto che oggi mina la stabilità del governo eletto, è stato fatto con l’Accordo Politico per la Pace e la Riconciliazione del febbraio 2019, negoziato tra il presidente Touadéra e 14 gruppi armati. Tale accordo, promosso dalle Nazioni unite, mira all’inclusione dei leader di alcuni dei gruppi di ribelli nell’esercito nazionale e/o in altre cariche politiche. Fra i principali provvedimenti prevede un programma di disarmo, smobilitazione, reintegrazione e rimpatrio di gruppi di ribelli. Insomma, intende favorire il più possibile il dialogo tra il governo e i ribelli per giungere a un accordo che ponga definitivamente fine alla crisi.
Tuttavia, gli episodi di violenza degli ultimi mesi ne hanno dimostrato l’inefficacia, svelando come le azioni politiche debbano necessariamente essere accompagnate da politiche economiche e sociali complementari per essere incisive. Occorre innanzitutto risolvere le gravi divisioni etniche che oggi affliggono il paese: una reale inclusione economica della popolazione musulmana è infatti necessaria per sanare la polarizzazione religiosa del conflitto. Addizionalmente, va eradicato quello che Thierry Vircoulon denomina il “business conflict model”, cioè una dinamica affaristica di conflitto che troppi hanno interesse a protrarre.
Quello che occorre con urgenza è dunque intraprendere nuovi ingenti investimenti nel paese, nonché politiche mirate per rafforzare la coesione sociale. Inoltre sarà indispensabile riportare la politica e il controllo delle risorse sotto la guida nazionale, in modo da ristabilire il contratto sociale stato-cittadini che per troppo tempo è stato assente nella storia centrafricana.