Introduzione. Lo scandalo francese: il catalizzatore di un dibattito centenario
L’Islam sarebbe una religione “in crisi”. Il capo di Stato francese Emmanuel Macron, in una delle sue ultime interviste, ha suscitato numerose polemiche a causa di alcune sue dichiarazioni, in cui ha condannato i mandanti degli attacchi terroristici avvenuti in Francia negli ultimi mesi, e in cui ha difeso i disegnatori di Charlie Hebdo, noti per le vignette da cui sono scaturite innumerevoli polemiche.
Macron ha sostenuto che molti appartenenti al credo musulmano vivrebbero in una “società parallela”, vicina al fondamentalismo e ostile ai valori del tricolore. Macron ha poi spiegato che la nuova legge proposta dal suo Governo obbligherà tutti gli agenti pubblici e i dipendenti di aziende private con appalti pubblici ad un voto di neutralità. Infine, il presidente francese ha detto che lo stato francese dovrà aiutare l’Islam a “strutturarsi per essere un partner della Repubblica”. Nei primi minuti della conferenza stampa, Macron ha ironizzato sulle politiche adottate dai suoi predecessori, sostenendo che essi stessi avrebbero creato il problema da lui denunciato. “Ci siamo costruiti da soli il nostro separatismo” ha detto, subito prima di denunciare la ghettizzazione e la marginalizzazione delle minoranze musulmane. Dopo l’annuncio dell’introduzione di misure volte a contrastare la diffusione dell’Islam radicale, infatti, Macron è stato accusato di propaganda anti-islamica e di istigazione all’odio

Il discorso era volto a introdurre una nuova strategia del Governo, nominata “la Repubblica dei fatti”, che ha come obiettivo quello di difendere la Repubblica e i suoi valori e fare rispettare le sue promesse di uguaglianza e di emancipazione. La strategia dovrebbe prendere forma in un disegno di legge che sarà discusso dal Consiglio dei ministri a dicembre.
L’intervista in questione ha quindi riaperto una discussione centenaria che, anno dopo anno, imperversa sul tavolo dei teorici della politica interna ed internazionale: il rapporto tra Stato, laicità e religione. La correlazione tra queste tre categorie concettuali è sempre stata complessa e talvolta ha portato alla legittimazione di atti criminali, in quasi ogni parte del mondo. La relazione tra laicità e religione, nell’ambito statale e interstatale, è ancora oggi oggetto di continuo dibattito, in una discussione che da quando è iniziata non ha mai trovato una soluzione universale.
La laicità in Occidente: da concetto ideologico a principio giuridico
Una valutazione, seppur condensata e forzosamente incompleta, del principio di laicità nello stato giuridico attuale non può tralasciare un inquadramento storico che permetta, anche se in parte, di determinare la genesi e le principali tappe di un lungo percorso evolutivo che ha stravolto la storia del mondo occidentale.
Riassumendo gli ultimi mille anni in pochi paragrafi, si può affermare che è nell’Umanesimo e nel Rinascimento che si è assistito ad una marcata laicizzazione della cultura dell’Occidente.
Con l’affermazione e la divulgazione teorica di scienziati come Copernico e Galileo si rimarcò il primato della scienza nella società; considerando che il mondo tangibile veniva riscoperto in termini matematici, sarebbe stato necessario ricorrere a tali termini per poterlo spiegare. La matematica, in un processo estremamente lento e graduale, superava la teologia e la metafisica nella possibilità di spiegare i fenomeni terreni. Il ruolo sociale della scienza fu quindi quello di rompere il nesso causale che attribuiva al ‘divino legislatore’ tutti gli avvenimenti terreni.

Molti ambiti della vita sociale vennero stravolti dopo le divulgazioni degli scienziati sopracitati, e tra questi, anche la concezione del diritto. Il percorso più specifico in questione, quello della laicità del diritto e più in particolare della laicità dello stato, pone le sue fondamenta nelle parole di Accursio (1184-1260), che sosteneva che il giurista non avesse nessun bisogno della conoscenza teologica, perchè “tutto risiede nel diritto” (secondo il principio omnia in corpore iuris).
Nel secolo XVII invece, Grozio sostenne che il diritto naturale sarebbe stato valevole “anche se ammettessimo l’inesistenza di Dio”, secondo il principio etiamsi daremus non esse Deum. La questione assunse caratteri più impegnativi quando Niccolò Machiavelli scrisse che la politica dovesse essere autonoma dalla legge morale, poiché per l’uomo politico ciò che è più importante è il successo, a prescindere dalla via utilizzata per raggiungerlo. Forza, frode, inganno, non contavano più.
Infine, giungendo a teorici più moderni, il processo di laicizzazione trova il suo coronamento nei libri di Spinoza, Rousseau e Hobbes, che parlano dell’istituzione stato come il ‘Dio terreno’, la sorgente e il tesoriere di tutti i diritti dell’uomo. Lo stato passa ad essere un’istituzione praticamente sacra, composto da leggi degli uomini e per gli uomini e non più da leggi divine per gli uomini.

Il processo di laicizzazione dello stato e delle istituzioni trovò in Francia un terreno molto fertile. Nel 1901 il Parlamento francese promulgò la Legge sulla libertà di associazione, che, pur garantendo la libertà di associazione, consentiva il controllo dello stato sulle comunità religiose e limitava la loro influenza sull’istruzione. La legge fu un evento molto importante, che segnò nel luglio del 1904 la fine delle relazioni diplomatiche tra la Francia e il Vaticano. Un anno dopo, il 3 luglio del 1905, la Camera dei Deputati francese approvò un’altra legge che aveva come tema centrale la separazione tra Chiesa e stato. Fu una tappa fondamentale di una laicità le cui caratteristiche sono rimaste immutate fino ad oggi. Il primo articolo della legge del 1905 descrive lo scopo di tale legge come quello di assicurare la cosiddetta ‘libertà di coscienza’ e di porre lo stato come garante del “libero esercizio della religione secondo le disposizioni in appresso emanate nell’interesse dell’ordine pubblico”. Il secondo, quello che più chiaramente delinea il distacco tra le due istituzioni, recita: “La Repubblica non riconosce, paga o sovvenziona alcuna setta religiosa. Di conseguenza, dal primo gennaio successivo all’emanazione di questa legge, saranno rimosse dai bilanci statali, dipartimenti e comuni, tutte le spese relative all’esercizio della religione”.
L’influenza della religione nelle società a maggioranza musulmana
Guardando ai territori a maggioranza musulmana, la dialettica tra sfera politica e sfera religiosa ha conosciuto percorsi e meccanismi imparagonabili negli stessi termini con i processi di cambiamento avvenuti in molti paesi occidentali.
Parafrasando Luciano Musselli, professore di diritto canonico, possiamo dire che in tali paesi la connessione tra la dimensione religiosa e quella giuridica è ancora oggi molto stretta: tale configurazione pone le sue radici storiche nella nascita della prima umma, la comunità islamica. È a Medina, infatti, che il profeta Maometto costituì la prima città-stato teocratica basata sulla parola rivelata dal Corano. Le sure – capitoli del Corano – risalenti a questo periodo, sono caratterizzate da un forte stampo giuridico e da esse proviene la shari’a, la legge islamica. Quest’ultima rappresenta l’insieme di principi e valori che guidano il buon musulmano nell’agire spirituale e sociale. Dal momento che deriva dalla parola sacra, è immutabile. Precisando che una visione strettamente spirituale sia presente in alcune specifiche tendenze musulmane, il professore Musselli spiega che “l’idea dell’Islam come pura religione scissa dall’elemento sociale e da quello della tradizione e della cultura […] è tipicamente occidentale”.
La Legge Sacra include indicazioni sulla vita sociale nella sua interezza, soprattutto ciò che concerne – usando termini della giurisdizione occidentale – il diritto della famiglia, il diritto penale e i diritti della persona, ed è il punto di riferimento per la maggioranza dei paesi dove l’Islam rappresenta il credo di maggioranza. Tuttavia, la shari’a si concretizza nelle giurisdizioni nazionali attraverso il fiqh (la giurisdizione islamica), ovvero l’insieme di leggi nazionali che, al contrario della prima, sono mutabili, frutto di interpretazione e contestualizzazione. Ne risulta che l’applicazione dei principi coranici cambia da paese a paese.

Infatti, i cambiamenti socio-politici vissuti dalla regione del Medio-Oriente e del Nord Africa – in particolare dopo le primavere arabe – hanno portato a rimodulare il peso della shari’a nei sistemi legali: come sottolinea Wetenschappelijke Raad voor het Regeringsbeleid, nel suo libro Dynamism in Islamic Activism, ad oggi tutti i paesi musulmani hanno una costituzione, con nullo o parziale riferimento alla shari’a, mentre solo l’Arabia Saudita riconosce a quest’ultima tutti gli attributi di una costituzione, applicando la legge coranica in ogni suo dettaglio. Tuttavia, in molti di questi paesi, la shari’a rimane comunque fonte di riferimento per questioni private.
Un’eccezione è rappresentata dalla Turchia. Come riportato da un articolo di Rossella Bottoni, professoressa di scienze giuridiche presso l’Università di Trento, questo paese è il solo, tra quelli a maggioranza musulmana, che ha intrapreso un processo diverso, un cambiamento più vicino al senso occidentale di laicizzazione. È qui, infatti, che Kemal Ataturk fondò la Repubblica turca, dotata di un ordinamento giuridico indipendente dalla religione, seguendo il principio di laiklik (laicità).
Nonostante le condizioni di nascita della ‘Nuova Turchia’, il paese oggi sta vivendo sviluppi in senso diverso con l’attuale presidente Erdogan, capo del partito conservatore di stampo islamista AKP. In questo contesto si inseriscono le ben note discussioni a sfondo religioso tra Ankara e Parigi.

Rapporti franco-turchi, la difficile conciliazione di due realtà molto differenti
Portando ad esempio due paesi che incarnano posizioni opposte in materia di laicità, ovvero Francia e Turchia, possiamo denotare come questa differenza di approccio generale si rifletta sulle loro reciproche relazioni diplomatiche. La Turchia vanta una notevole storia imperiale, le cui memorie proprio Erdogan sta tentando di tenere vive, dopo oltre cento anni di esperienza repubblicana e nazionale.
Nonostante entrambi i paesi si considerino alleati degli Stati Uniti, Francia e Turchia hanno iniziato a scontrarsi nello scenario mediterraneo, dove stanno tuttora tentando di ampliare la propria sfera d’influenza, l’una a spese dell’altra.
A tal proposito, dopo aver chiuso le porte dell’Unione Europea a stati come Albania e Macedonia del Nord, Macron è stato rimproverato di aprire spazi all’infiltrazione turca nella regione. Paradossalmente, l’obiettivo dell’Hexagon era invece quello opposto: rendere poco permeabile l’Europa comunitaria dall’influenza della Turchia, che si è molto avvicinata ai paesi balcanici anche grazie ad un aumento dell’identitarismo islamico nella regione. Erdogan, presidente conservatore e capo del partito Giustizia e Sviluppo, ha ottenuto anche un ragguardevole risultato in Libia, dopo gli accordi a cui è arrivato con Donald Trump: gli USA hanno infatti smesso di supportare l’offensiva del generale Haftar, vicino ai francesi, contro il Governo di Accordo Nazionale diretto a Tripoli da Fayez al Serraj, che invece è appoggiato dalla Turchia, oltre che dall’Italia.
Il contenzioso franco-turco è infine giunto al suo apice nel ventre dell’Alleanza Atlantica, dove Ankara ha minacciato di applicare il veto sulla prosecuzione delle missioni di pacificazione nelle repubbliche baltiche, se gli stati membri non le avessero dimostrato solidarietà nella lotta alla causa curda, che invece Macron sostiene.
Fede e appartenenza: l’America Latina
Un contesto similare, dove la religione e le sue implicazioni modificano quotidianamente gli affari politici interni e internazionali, è l’America Latina, dove negli anni della Guerra Fredda erano presenti diversi regimi dittatoriali. È qui, infatti, tra altri esempi, che ha origine il movimento della Teologia della Liberazione, definito dai padri conciliari riunitisi a Medellin, Colombia, nel 1968.
Come riportato da un articolo de Il Post, questa corrente di pensiero si fonda sull’idea di una di Chiesa attiva nella società contemporanea, in linea con i principi riformisti del Concilio Vaticano II. Una Chiesa popolare che viva per i valori di emancipazione politica e sociale presenti nel messaggio cristiano, soprattutto a favore dei poveri, e che interpreti la realtà in chiave marxista. In tal senso, lo scopo della Chiesa si prefigura molto più ampio: liberare i bisognosi da oppressioni spirituali, materiali e culturali, considerando che le loro pene sono paragonabili, a loro dire, a quelle di Cristo in croce. Tali principi si concretizzarono in un attivismo sociale concreto, con la creazione delle Comunità Ecclesiali di Base (CEB), centri ecumenici dai quali si dispiegava l’attività concreta dei presbiteri.
In questo modo le CEB si svilupparono in maniera consistente nei paesi del Sud America schiacciati dai regimi totalitari, spesso supportati dai vertici stessi della Chiesa, come accadde in Argentina. L’attivismo politico degli esponenti della teologia, oltre ad essersi realizzato a livello popolare, arrivò in alcuni casi alle strutture di governo: nel Governo di Daniel Ortega, in Nicaragua, Ernesto Cardenal ebbe il ruolo di ministro della Cultura, mentre Miguel d’Escoto fu ministro degli Affari Esteri. Entrambi i presbiteri furono noti anche per la loro partecipazione attiva ai movimenti di resistenza sandinista durante il regime dittatoriale di Somoza. Per quanto riguarda il Brasile, il frate francescano Leonardo Boff agì come un fervido attivista per i diritti del popolo brasiliano nelle favelas.

Questo movimento religioso improntato all’attivismo sociale e politico ha generato nel corso del tempo reazioni diverse da parte dei papi che si sono succeduti. Se da un lato venne sostenuto dagli esponenti del Concilio Vaticano II, dall’altro, papa Giovanni Paolo II si rivelò ostile all’azione politica dei presbiteri: sospese i già citati sostenitori della teologia della liberazione, proibendo loro di amministrare i sacramenti. Karol Wojtyla, inoltre, sollecitò l’intervento dell’organismo ecclesiastico di tutela della dottrina della Chiesa Cattolica, la Congregazione per la Dottrina della Fede, che pubblicò l’istruzione Libertatis Conscientiae, dove si chiariva che l’attività della Chiesa doveva limitarsi all’ambito spirituale.
Lo scontro tra il movimento della Chiesa popolare e la Santa Sede fu reso evidente durante l’incontro tra il papa e gli esponenti del Governo Ortega a Managua nel 1983, quando la folla intonò un coro rivolto al pontefice, che diceva “tra cristianesimo e rivoluzione non c’è contraddizione”, a cui partecipava lo stesso presidente Ortega, come ricorda il quotidiano spagnolo El Pais. La situazione pare essere cambiata, invece, con papa Francesco, il cui approccio alla sfera politica si profila come più attivo in ambito di relazioni internazionali, così come nell’apertura della Chiesa cattolica alla dimensione sociale. Bergoglio, infatti, ha revocato la sospensione di Ernesto Cardenal e Miguel d’Escoto dopo ben trent’anni. Tuttavia, come riporta Il Post nell’articolo già citato, Bergoglio sostiene la necessità di una contestualizzazione e riformulazione della teoria alla luce della caduta del socialismo e dei nuovi sviluppi socio-politici.
Il buddismo in Tibet, tra tentativi di sinizzazione e repressione
Un’altra dinamica particolare dei rapporti tra stato e religione è riscontrabile in Cina. Nello specifico, nelle relazioni tra il Governo centrale e la componente buddista della regione del Tibet. Infatti, il buddismo rappresenta uno degli aspetti più importanti dell’identità nazionale e culturale tibetana. La Cina ha sempre dimostrato una forte ostilità nei confronti del buddismo in Tibet, causata soprattutto dal timore che la religione, in questo caso, potesse fungere da pilastro per la costruzione di un ancor più forte sentimento di unità nazionale dei suoi abitanti. Un altro aspetto che preoccupa il Governo cinese è quello dell’immagine del Dalai Lama, a cui la religione conferisce i poteri di guida spirituale e temporale del popolo, identificandolo come leader della comunità, principio che inevitabilmente confligge con il ruolo del Governo di Pechino.
Questi fattori fanno sì che per la Cina, dietro il buddismo tibetano, si celi un problema di tipo politico, in cui le istituzioni religiose rappresentano “centri di ribellione da sopprimere”, secondo il quadro che ne dipinge l’Associazione Italia-Tibet. Secondo InStoria, anche la sola attività spirituale del Dalai Lama mina l’integrità politico-territoriale, alimentando il movimento per l’indipendenza del Tibet.

Laogai riporta come si continuino a ricevere prove di repressione della libertà religiosa in Tibet, grazie al Centro Tibetano per i Diritti Umani e per la Democrazia. Nel 1996, venne lanciata la campagna di repressione contro le istituzioni religiose tibetane Colpisci duro, che aveva l’obiettivo di rieducare al patriottismo. Anche oggi sono migliaia i monaci sottoposti a controlli da parte dei funzionari governativi, che vengono costretti a rinnegare il Dalai Lama, in favore del Panchen Lama designato da Pechino.
Nonostante il Governo tibetano si trovi attualmente in esilio, esso continua a respingere ogni tentativo di sinizzazione del buddismo tibetano auspicato da Xi Jinping. Come riportato dall’Associazione Italia-Tibet, il presidente cinese, nel corso del 7° Simposio sul Tibet tenutosi a Pechino lo scorso agosto, si è concentrato sulla necessità di iniziative da parte del Governo tibetano atte alla salvaguardia dell’unità della madrepatria, evidenziando l’importanza dell’educazione delle masse per favorire la lotta anti-secessione. Xi Jinping ha individuato come fondamentale l’insegnamento della storia del partito in Tibet, con l’obiettivo di promuovere i rapporti tra le regioni tibetane e la madrepatria.
Lobsang Sangay, presidente dell’Amministrazione Centrale Tibetana, in tutta risposta, ha sostenuto che alla base dell’instabilità tibetana non vi sia la fede religiosa, ma le politiche repressive e fallimentari del Governo cinese, definendo le direttive stesse “fuorvianti” e “irrealistiche”. Secondo Sangay, l’unica soluzione in grado di risolvere la questione del Tibet sarebbe rappresentata dalla ripresa del dialogo con il Dalai Lama e i suoi inviati, garantendo al paese una genuina autonomia.
Conclusione
In ultima analisi, è quanto mai evidente che il rapporto tra la sfera politica e quella religiosa assuma significati e sfaccettature diverse a seconda del contesto storico-culturale in cui si manifesta. Il percorso sociologico e politico intrapreso in diverse aree del mondo ha portato le due dimensioni ora ad allontanarsi, come nel caso della cultura occidentale a partire dal Rinascimento, ora ad avvicinarsi, come mostra l’esempio dell’America Latina. In altri casi, il rapporto è rimasto quotidianamente tangibile, pur subendo notevoli rimodulazioni, come si è detto dei paesi dove l’Islam è la confessione maggioritaria.
È innegabile che la religione sia attualmente una delle materie di discussione che più agita i dibattiti riguardanti la politica nazionale ed internazionale. Sia nella dimensione del suo rapporto con l’istituzione Stato, sia negli aspetti relativi al suo carattere e al fattore identitario. In tal senso, è bene considerare e avere consapevolezza della capacità e della volontà dei leader politici di far leva sull’elemento religioso, favorendolo o bloccandolo, condizionando ampiamente l’opinione pubblica e alterando i sistemi giuridici in cui quest’ultima viene a manifestarsi.