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Ungheria e Polonia: tra sanzioni strutturali e stato di diritto in UE

mmbySimone Innico
Novembre 30, 2020
in Europa Occidentale
Reading Time: 9min read
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Ungheria e Polonia: tra sanzioni strutturali e stato di diritto in UE

Lunedì 16 novembre, in una videoconferenza tra i rappresentanti dei 27 esecutivi europei, Polonia e Ungheria hanno esercitato il loro potere di veto per ostacolare i negoziati sul bilancio dell’Unione Europea 2021-2027, ponendo anche in stallo l’intera procedura di accordo per sbloccare i 750 miliardi di euro preventivati come recovery fund post-coronavirus. 

Ragione dichiarata dell’opposizione dei due stati membri è stata la proposta di includere nell’accordo una forma di vincolo tra l’attivazione dei fondi e il rispetto dello stato di diritto, indipendenza della giustizia e libertà democratiche all’interno dei singoli Paesi UE. Nel testo della bozza, infatti, si legge di una eventuale riduzione o congelamento dei pagamenti in seguito a voto favorevole di una maggioranza qualificata nel Consiglio dell’UE. Si tratterebbe, dunque, di un vero e proprio meccanismo di deterrenza a disposizione dell’Unione verso uno o più dei suoi stati membri. Tuttavia, la concezione “minimalista” del potere di intervento europeo professata da Varsavia e Budapest, come scrive Matteo Tacconi per ISPI, è tale per cui “l’Ue deve garantire mercato, frontiere aperte e sviluppo, senza sognarsi di dare lezioni di democrazia”. 

Questa nuova frattura in seno al Consiglio dell’Unione Europea porta alla luce, ancora una volta, una serie di questioni irrisolte. Da un lato si ergono i problemi legati alla membership nel concorso democratico europeo di stati i cui governi hanno da tempo sposato tendenze autoritarie, quali Polonia e Ungheria. Dall’altro, si palesano le controversie legate alle imperfezioni sistemiche del potere di intervento europeo, in particolare per quanto riguarda la difesa dei propri valori fondamentali.

La storica tendenza “autonomista” dei Paesi membri dell’accordo di cooperazione cosiddetto Gruppo Visegrad – siglato da Polonia e Ungheria assieme a Repubblica Ceca e Slovacchia – può servire in parte da spiegazione per comprendere l’ostruzionismo ungherese a trazione Fidesz e polacco di Prawo i Sprawiedliwość (PiS). Un analogo percorso politico e situazioni economiche comparabili hanno portato questi Paesi a stringere un solido legame multilaterale che ha anticipato di oltre un decennio l’ingresso congiunto nell’Unione Europea, nel 2004. 

Negli ultimi vent’anni, seppur le economie dei “Visegrad 4” (V4) abbiano goduto dei notevoli benefici del mercato unico europeo, lo stesso non si può dire riguardo all’indice del  PIL pro capite, soprattutto se comparato alla media europea. Sempre secondo le analisi dell’ISPI, il mancato allineamento alla qualità della vita di tutti i cittadini europei rappresenta uno tra gli “argomenti usati più spesso dalle voci euroscettiche nel dibattito politico dei V4”.

Eppure, come evidenziato nelle parole dei Ministri agli Esteri ceco Tomáš Petříček e slovacco Ivan Korčok a seguito del veto, perlomeno in questo frangente Praga e Bratislava hanno preso una posizione opposta a quella dei due storici partner Varsavia e Budapest, esprimendo il loro favore alla linea del Consiglio Europeo. Di fatto, l’adozione del veto in sede europea presenta radici che affondano nella realtà specifica dei due singoli paesi. In particolare, sia Orbán in Ungheria che la coppia Duda-Morawiecki in Polonia, si trovano a ricoprire posizioni complesse nei confronti sia degli interlocutori esterni che della audience interna. Storicamente, sia Fidesz che il PiS si sono fatti portavoce di un movimento reazionario anti-europeo, sorto e alimentato dagli esiti disfunzionali della risposta europea alla crisi finanziaria di inizio millennio. L’impatto della politica di austerity sulle economie dei Paesi UE e l’avversione ideologica nei confronti della cosiddetta “Europa a due velocità”, in Ungheria e Polonia come nel resto dei Paesi più colpiti dalla recessione, hanno assicurato larghi margini di consenso ai promotori di discorsi populisti ed euroscettici.

Tuttavia, il 2020 sembra aver presentato una sfida inedita per i leader di Polonia e Ungheria, ora bersaglio di rimostranza interna a causa della gestione della crisi sanitaria percepita come inefficace o eccessivamente autoritaria. Nei sondaggi d’opinione in Polonia, una larga percentuale ha espresso la propria insoddisfazione per la gestione della pandemia da parte del governo di Morawiecki, chiedendo le dimissioni del ministro per la Sanità Łukasz Szumowski. In Ungheria, invece, si è rivelato solido il dissenso per la manovra plenipotenziaria adottata a fine marzo dal governo Orbán, ora accusato dall’opinione pubblica di abuso di potere e strumentalizzazione anti-democratica della pandemia. Segnatamente, il governo ungherese è stato oggetto di critica ufficiale, seppur senza menzione esplicita, da parte di tredici stati dell’Unione, tra cui anche l’Italia. Essi hanno firmato una dichiarazione congiunta in cui è stata posta al centro la necessità dei governi europei di adeguarsi a un uso “proporzionato e temporaneo” delle misure straordinarie per la gestione dell’emergenza sanitaria. Inoltre è stato sottolineato come le misure adottate, per quanto necessarie, non possano mai compromettere lo stato di diritto o il godimento di diritti civili quali la libertà d’espressione e di stampa.

Per quanto riguarda la Polonia, i campanelli d’allarme circa le libertà democratiche sotto il governo Morawiecki sono altrettanto numerosi. Solo nell’aprile 2020, la Commissione Europea ha avviato una procedura di infrazione contro Varsavia, a causa della riforma giudiziaria approvata nel dicembre 2019 che metterebbe a repentaglio l’indipendenza della magistratura polacca rispetto all’esecutivo nazionale. Si registra inoltre, sempre quest’anno, un clima di tensione ideologica e sociale, recentemente aggravatosi con il pronunciamento di incostituzionalità circa la legge che consentiva l’aborto per casi clinici, e con la crescente politicizzazione di omofobia e transfobia da parte dell’esecutivo di Varsavia. In aggiunta, questo trend è stato adottato in misura eguale dal governo Orbán ungherese, come anche dal quasi omonimo governo Orban romeno.

Inoltre, la storia della performance negativa di Polonia e Ungheria circa lo stato di diritto e dell’atteggiamento ostile di fronte alla cooperazione europea dei due governi risale perlomeno alla “crisi migratoria” del 2015. Infatti, in quel caso, l’Ungheria si rifiutò di adeguarsi al meccanismo di “redistribuzione”, giustificando la scelta su ragioni di carattere ideologico e religioso. Nonostante i tentativi di intervento da parte del concerto europeo, risultano evidenti, in entrambi i casi, le storiche difficoltà di inerzia, incapacità di controllo e sanzione interna da parte dell’Unione. Una difficoltà alla quale la proposta clausola di condizionalità nel bilancio 2021-2027 potrebbe dimostrarsi una possibile innovazione risolutiva.

Alla luce di queste riflessioni, risulta ancora più grave la rottura dell’unanimità da parte di due membri UE come Polonia e Ungheria i quali, pur ricoprendo ancora una palese posizione di dipendenza economica dal consorzio europeo, rappresentano lo “zoccolo duro” del sentimento euroscettico. Inoltre, nel momento in cui la prospettiva del progetto europeo perde di trazione, un paese come l’Ungheria può facilmente rivolgere altrove i propri interessi politici. Come scrive Grigorij Mesežnikov per Visegrad Insight, l’ovvia alternativa per le relazioni esterne di Budapest è la Russia di Putin. La stessa dinamica, per ora, non si può osservare in Polonia, la quale resta nonostante tutto una tra le forze mondiali più ostinatamente filoamericana e decisamente vincolata al dialogo NATO.

Tuttavia, una misura potenzialmente di grande efficacia, a ben vedere, sarebbe già a disposizione: si tratta della cosiddetta “opzione nucleare”, ossia l’Articolo 7 del Trattato sull’Unione Europea (TEU). Tale strumento richiede l’espressione di unanimità di tutti gli Stati membri – tranne lo Stato in questione – e consentirebbe l’attivazione di sanzioni politiche, quali il diniego del diritto di voto a Bruxelles. È significativo notare come i primi veri e propri precedenti storici di proposta di attivazione della misura sopracitata, abbiano esclusivamente coinvolto proprio Polonia e Ungheria, e solamente negli ultimi cinque anni. Nonostante il potenziale impatto racchiuso in questo “meccanismo di autodifesa”, anche in questo caso si registra un evidente ostacolo interno e, al momento, ineliminabile: Varsavia e Budapest, unite nell’analoga posizione di precarietà e controversia nel forum europeo, si sarebbero assicurate mutuo sostegno e reciproca prevenzione nel caso di un prossimo tentativo di attivazione dell’Articolo 7.

A conti fatti, il potere di intervento europeo sembrerebbe ancora decisamente vulnerabile alle minacce interne, intese come difficoltà strutturali nel dialogo intra-europeo. Tali difficoltà costitutive conducono, di fatto, a una disfunzionalità dei processi di policy-making e a una generale inefficacia del vero e proprio progetto di una “comunità continentale”, unita e solidale. Come dichiarato anni fa dall’allora presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker, “l’Europa è qualcosa di più che solamente un mercato unico. Più del denaro, più della valuta, più dell’euro. È sempre stata una questione di valori”.

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