Svante Arrhenius è stato il primo scienziato al mondo a sostenere, già nel 1896, che la combustione di materiale fossile potesse provocare un aumento della temperatura globale, evidenziando una possibile correlazione tra la concentrazione di anidride carbonica nell’aria e la temperatura atmosferica. Da allora, nei cent’anni successivi, si sono susseguite conferme e smentite di quest’affermazione. La ratifica del protocollo di Kyoto del 1998 ha così segnato un importante punto di svolta per i paesi firmatari, che si sono impegnati a ridurre le proprie emissioni di gas serra di una percentuale pari almeno al 5%. Negli anni a venire, gli obiettivi politici in ambito ecologico si sono fatti progressivamente più ambiziosi.
A tal proposito, l’Unione Europea nel 2015 si è impegnata a diminuire entro il 2030 le emissioni di gas serra di almeno il 40% rispetto ai livelli del 1990. Il Parlamento europeo ha poi quest’anno rilanciato la proposta ponendo un obiettivo più ambizioso: il 60% entro il 2030 per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050.
Non è stato di meno neanche l’annuncio del presidente Xi Jinping che, in occasione dell’Assemblea Generale dell’ONU, ha espresso la volontà di trasformare la Cina in un paese carbon neutral entro il 2060.
Secondo quanto riportato dalla piattaforma online Rinnovabili.it, con il 14esimo piano quinquennale 2021-2025 la Cina continuerà a ridurre le emissioni di CO2 dopo aver raggiunto il picco nel 2035. Nonostante non sia chiaro se i tagli riguarderanno tutte le emissioni climalteranti o la sola CO2, ciò che è certo è che anche questo paese, come l’Unione Europea, punterà sul green, cercando di ridurre il ricorso al carbone e ampliare l’utilizzo delle rinnovabili. Una decisione che potrebbe sembrare a prima vista rischiosa e controproducente per il colosso cinese, visto il ruolo fondamentale che il carbone gioca nella sua economia: la Repubblica popolare cinese rappresenta ad oggi il principale consumatore di carbone, seguito da India e Stati Uniti.
Tuttavia, va considerato che il paese risulta oggi leader anche nella produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, oltre che nelle tecnologie relative alle energie pulite e nella produzione di auto e bus elettrici. Come primo investitore al mondo in energie rinnovabili dal 2012, la Cina produce infatti circa il 70% dei pannelli solari a livello mondiale e costruisce batterie a ioni di litio nella stessa percentuale, senza contare la posizione di controllo totale che occupa nell’estrazione di alcune materie prime critiche come le terre rare, necessarie nella filiera dell’energia elettrica.
Non disponendo delle stesse risorse energetiche e minerarie, a settembre di quest’anno l’Unione Europea ha presentato il piano d’azione europeo sulle materie prime, un piano indispensabile per la riuscita dello European Green Deal e che intende ridurre la dipendenza dall’estero. La transizione industriale europea verso la neutralità climatica potrebbe infatti innescare una dipendenza europea dalle materie prime ritenute necessarie per la svolta green, piuttosto che dai combustibili fossili. Per questo, la Commissione Europea ha deciso di riavviare l’attività mineraria volta a garantire una continua disponibilità di litio, bauxite e delle materie prime critiche. “Il tempo di un’Europa naïve che fa affidamento sugli altri per i suoi interessi è finito”, ha affermato Thierry Breton, il commissario europeo per il Mercato interno, sottolineando l’intenzione dell’UE di stipulare accordi commerciali e di estrazione con stati e aziende che garantiranno il rispetto dei diritti dei lavoratori e degli standard ambientali.

Un discorso a parte meritano invece gli Stati Uniti, il cui orientamento sull’argomento cambia a seconda del presidente in carica. Nonostante Trump avesse annunciato il recesso degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi già nel 2017, i risultati delle elezioni presidenziali fanno presumere che ci sarà un cambio di direzione da parte del Governo. Già in campagna elettorale Biden aveva infatti annunciato un piano da 2 trilioni di dollari per combattere il cambiamento climatico, proponendo una politica climatica ambiziosa caratterizzata dall’installazione di pannelli solari e turbine eoliche sparsi tra le montagne e le praterie del paese, dalla diffusione di stazioni di ricarica elettriche e da una graduale diminuzione dell’inquinamento da gas serra del pianeta. “L’industria petrolifera inquina in modo significativo” ha detto Biden durante l’ultimo dibattito presidenziale, aggiungendo che “deve essere sostituita da energie rinnovabili nel tempo”.
Si tratta dunque di promesse forti che se mantenute, sostiene il capo dell’Agenzia internazionale per l’energia Fatih Birol, potrebbero far in modo che le energie rinnovabili superino il carbone diventando la più grande fonte di generazione di elettricità a livello mondiale già nel 2022. L’Energy outlook 2020, pubblicato lo scorso ottobre dall’Agenzia, prevede un boom delle fonti rinnovabili, che permetterà di designare il solare come il ‘re’ del nuovo mercato elettrico mondiale.

Nello stesso documento, si prospettano forti cambiamenti geopolitici e implicazioni economiche a causa di questi nuovi scenari energetici. D’altra parte, alcuni studiosi avevano segnalato già nel 2012 l’avvento di un nuovo monopolio cinese, con i rischi che questo potrebbe comportare per la stabilità internazionale. Oltre alle terre rare, la Cina dispone infatti di ingenti quantità di risorse minerarie fondamentali nel processo di costruzione delle tecnologie energetiche verdi. Vi si trovano ad esempio piombo, selenio e tellurio – essenziali per la tecnologia solare – così come grafite, litio e titanio, necessari per i veicoli elettrici e le tecnologie di accumulo di energia. La futura inclusione della Cina nell’insieme degli accordi e delle discussioni riguardo l’approvvigionamento di energia green sembrerebbe pertanto inevitabile.
Quanto al carbone, non sarà attenuato il trend di declino avviato negli ultimi anni, prospettando un ridimensionamento del ruolo economico e geopolitico dei più grandi produttori di questo combustibile, tra cui Russia e Polonia. Se, da un lato, l’Unione Europea sembrerebbe supportare i suoi stati membri attraverso il Just Transition Fund, dall’altro, c’è chi preannuncia un’espansione russa nel settore eolico, già peraltro iniziata lo scorso anno. Il raggiungimento di un accordo con la compagnia energetica Enel per la costruzione del più grande parco eolico della Russia, ha offerto nuove prospettive economiche per il paese.
La transizione energetica mondiale è in corso e nuove politiche economiche e occupazionali dovranno essere messe in atto al fine di convertire gli attuali posti di lavoro in posti di lavoro green. A tal proposito è importante riprendere il parere del Fondo Monetario Internazionale, secondo cui la creazione di 12 milioni di nuovi posti di lavoro, come anche il rilancio del PIL mondiale, dipenderanno dall’attuazione di politiche volte a promuovere gli investimenti verdi, vale a dire investimenti in trasporti pubblici elettrici, reti elettriche intelligenti e ammodernamento degli edifici con lo scopo di migliorare l’efficienza energetica.
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