Non si può affrontare il tema dell’incontro tra sfera politica e sfera religiosa in questo 2020 senza confrontarsi con la figura e il ruolo del Vaticano e di papa Francesco.
Nell’enciclica Evangelii Gaudium, inviata a principio del suo pontificato nel 2013, Francesco delinea i principi fondamentali del suo futuro approccio al governo della sfera politica, sia nell’ambito delle relazioni internazionali del Vaticano sia nell’opera di rinnovamento e di apertura della Chiesa cattolica nella dimensione sociale dell’evangelizzazione. Di particolare rilevanza la sezione III, in cui sono illustrate le assunzioni di base su cui si struttura il progetto ecumenico e politico di Francesco per il “bene comune e la pace sociale”.
Uno sguardo agli scritti programmatici del pontefice, per quanto possa apparire un discorso eccessivamente astratto, è in realtà utile a leggere l’azione innovativa della politica estera del papa, anche rispetto ai suoi predecessori.
Il tempo è superiore allo spazio
“Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi”.
Evangelii Gaudium III. 223
Lo slogan più efficace adottato dal pontefice per spiegare la sua visione è quello che richiama alla “chiesa in uscita”. Un’espressione, già contenuta nell’enciclica Evangelii Gaudium, che sottintende l’attenzione per le periferie, non solo in quanto luogo geografico ed umano a cui si rivolge la dottrina sociale portata avanti da Bergoglio, ma anche come luogo geopolitico privilegiato per una nuova prospettiva universalistica della Chiesa.
Con il paradigma della “Chiesa in uscita”, Bergoglio sembra voler promuovere una Chiesa proiettata attivamente verso le dinamiche globali di esclusione e di diseguaglianza. Questa attenzione si ritrova in due encicliche, inviate dal pontefice nel corso degli ultimi anni, dal carattere spiccatamente sociale. Nel 2015, Francesco pubblica Laudato sì, nella quale, prima della Cop21 di Parigi, si affronta la tematica ambientale proponendo un approccio di ecologia integrale alla sfida del cambiamento climatico. Una posizione innovativa per un pontefice, che ha riscosso una certa attenzione nell’opinione pubblica globale, tanto che Foreign Policy ha indicato il papa come un esempio da seguire nell’approccio al cambiamento climatico.
Nell’enciclica Fratelli Tutti, pubblicata lo scorso ottobre, Bergoglio individua il valore della fraternità come chiave per una politica migliore, al servizio del bene comune, che metta al centro la dignità umana e il lavoro per tutti, in quanto “il mercato da solo non risolve tutto”. Il papa, inoltre, si schiera “contro la cultura dei muri” e ribadisce che i diritti sono senza frontiere e nessuno può rimanerne escluso, mostrando un’attenzione per il fenomeno migratorio che non è nuova nel pontificato di Francesco.
Tuttavia, il processo che più di tutti costituisce un forte elemento di discontinuità con i pontificati precedenti riguarda senza dubbio il progressivo decentramento attuato da Francesco che, come sottolineato da Pietro Mattonai su Affari Internazionali, punta a costruire una “chiesa policentrica”, dove Roma, e l’Occidente, non siano più l’unico centro. Le periferie di cui parla Bergoglio sono quindi lo spazio geografico verso cui si deve indirizzare la politica di apertura di una Chiesa che si vuole davvero universale.

La fine della tradizione romanocentrica della Chiesa cattolica è un processo a cui la Santa Sede sembra essere spinta dalle tendenze della storia e, soprattutto, della demografia. Passaggio chiave risulta essere l’allargamento del conclave, che Francesco porta avanti attraverso la nomina al cardinalato di vescovi che presiedono le conferenze episcopali, in un’ottica di legittimazione dal basso e di apertura delle chiesa a quelle periferie da cui lui stesso, pontefice originario “della fine del mondo”, proviene.
Questo cambio di paradigma per la politica vaticana si concretizza nello sganciamento della Santa Sede dalla politica estera degli Stati Uniti. Una trasformazione iniziata alla fine della Guerra Fredda, ma che con Francesco ha conosciuto un’accelerazione che, come riportato da Limes, lo ha posto in forte discontinuità con i suoi due predecessori.
Francesco ha però adottato un approccio differente e non ha mancato di prendere posizioni molto distanti da quelle statunitensi. A titolo di esempio, il Vaticano ha deciso di non esprimere posizioni riguardo la questione venezuelana, mentre, in Ucraina, Bergoglio ha preferito che la Santa Sede non si schierasse al fine di ricercare un dialogo ecumenico con la Chiesa ortodossa russa, come riporta Victor Gaetan su Foreign Affairs.
La realtà è più importante dell’idea
“L’idea staccata dalla realtà origina idealismi e nominalismi inefficaci, che al massimo classificano o definiscono, ma non coinvolgono. Ciò che coinvolge è la realtà illuminata dal ragionamento”.
Evangelii Gaudium III. 232
Il superamento del vincolo tra Chiesa cattolica e Occidente, e in particolare Stati Uniti, è ribadito in un articolo de La Civiltà Cattolica, rivista della Compagnia di Gesù approvata ufficialmente dalla Segreteria di Stato vaticana. In esso si chiarisce, inoltre, il deciso allontanamento di Francesco dall’idea di un “regno di Dio sulla terra”: sotto la leadership di Bergoglio, la nuova strategia vaticana si rivela improntata ad un forte realismo politico.
“La diplomazia della Santa Sede vuole stabilire rapporti diretti, fluidi con le superpotenze, senza però entrare dentro reti di alleanze e di influenze precostituite” scrivono gli autori Antonio Spadaro e Marcelo Figueroa. “In questo quadro, il Papa non vuole dare né torti né ragioni, perché sa che alla radice dei conflitti c’è sempre una lotta di potere. Quindi non c’è da immaginare uno «schieramento» per ragioni morali o, peggio ancora, spirituali”.
Non stupisce, allora, che proprio dal cattolicesimo statunitense si levino le voci più critiche all’operato di Francesco. L’espressione più evidente di questa frattura è la lettera che l’arcivescovo Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Stati Uniti nominato da Benedetto XVI, ha inviato il 7 giugno scorso al presidente statunitense Donald Trump. Nella missiva, che è stata considerata una sorta di manifesto della radicalizzazione del cattolicesimo statunitense, Viganò delinea lo scontro “biblico” tra i “children of light” e i “children of darkness”. Per la descrizione estesa di questo conflitto, che coinvolge il deep state, l’emergenza sanitaria e le proteste razziali negli Stati Uniti, si rimanda alla lettura del testo, ma risulta importante sottolineare che Viganò indica la presenza di questo scontro anche nella Chiesa, dove alcuni vescovi sarebbero “subservient to the deep state, to globalism, to aligned thought, to the New World Order which they invoke ever more frequently in the name of a universal brotherhood which has nothing Christian about it”.
La crescente avversione del mondo cattolico statunitense per le direttrici del pontificato di Francesco racconta uno scontro che non può essere ridotto al “semplice” conflitto tra potere temporale e potere spirituale. La nomina da parte di Francesco di Nelson Perez ad arcivescovo di Philadelphia, come successore del conservatore Charles Chaput, non è stata ben vista dalla componente più conservatrice della Conferenza episcopale statunitense, la United States Conference of Catholic Bishops. Tra le altre questioni aperte, c’è la discussione sul celibato sacerdotale, avvenuta durante il Sinodo sull’Amazzonia, in cui il cattolicesimo USA si è unito alle altre componenti conservatrici del mondo cattolico in difesa della ineliminabilità del celibato sacerdotale. Una posizione che è ribadita in libro firmato dal papa emerito Benedetto XVI e dal cardinale guineano Sarah.
Il cambio di passo promosso nella leadership di Francesco, tuttavia, non può essere additato come fattore determinante per le difficili relazioni tra l’amministrazione statunitense e la Santa Sede: basti pensare, ad esempio, al ruolo riconosciuto al pontefice da Barack Obama e Raul Castro per il disgelo delle relazioni tra Stati Uniti e Cuba. In effetti, i rapporti tra il Vaticano e Washington sembrano essersi deteriorati specificamente a partire dal 2016: la componente più tradizionalista del mondo cattolico USA ha rappresentato un importante bacino elettorale per l’elezione di Donald Trump.
In previsione delle presidenziali del 2020, si spiega pertanto l’attacco che il segretario di Stato Mike Pompeo ha lanciato contro il Vaticano lo scorso settembre, pochi giorni prima della sua visita in Italia e alla Santa Sede. In particolare, Pompeo si è rivolto contro le relazioni che il Vaticano intrattiene con la Cina, scrivendo sul sito First Things che “la Santa Sede possiede una capacità e dovere unici nel concentrare l’attenzione del mondo sulle violazioni dei diritti umani, specialmente quelle perpetrate dai regimi totalitari come quello di Pechino. Alla fine del ventesimo secolo, il potere della Chiesa in quanto testimone morale ha ispirato le azioni di chi ha liberato l’Europa orientale e centrale dal comunismo […]. Quello stesso potere di testimone morale dovrebbe essere usato oggi nei confronti del Partito Comunista Cinese”.
Pompeo si riferisce soprattutto all’accordo, siglato due anni fa, tra la Cina e il Vaticano per le nomine dei vescovi nel paese asiatico. Venuto a scadenza questo settembre, e prontamente rinnovato con una mossa che non è stata apprezzata da Washington e da parte della curia cardinalizia, si tratta di un’intesa particolarmente importante perché punta a modificare il quadro della chiesa cattolica cinese: fino a quel momento, in Cina esisteva una chiesa vicina all’Associazione Patriottica, riconosciuta dal regime cinese ma non dal Vaticano, ed una chiesa “sotterranea”, i cui vescovi erano nominati dal papa ma costretti al silenzio dal partito comunista.
“L’obiettivo dell’Accordo Provvisorio non è dunque mai stato meramente diplomatico e men che meno politico” spiega un articolo dell’Osservatore Romano, “ma è sempre stato genuinamente pastorale: il suo fine è di permettere ai fedeli cattolici di avere vescovi che siano in piena comunione con il Successore di Pietro e allo stesso tempo siano riconosciuti dalle autorità della Repubblica Popolare Cinese”. Un accordo, dunque, fortemente improntato al realismo politico, che, secondo i principi del pontificato di Bergoglio, punta a raggiungere l’unità della Chiesa attraverso la prevalenza del pragmatismo sul posizionamento ideologico e in un’ottica di cambiamento di lungo periodo. Come ha scritto il segretario di Stato Parolin, “l’Accordo Provvisorio del 22 settembre 2018 costituisce non tanto un punto di arrivo, quanto piuttosto un punto di partenza”.
Il tutto è superiore alla parte
“Bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi”
Evangelii Gaudium III. 235
Dunque, un atteggiamento di apertura al dialogo e teso al compromesso che si ritrova nell’intervista rilasciata da Francesco a Reuters nel 2018: parlando della questione cinese, il pontefice disse che “il dialogo è un rischio, ma io preferisco il rischio piuttosto che la sicura sconfitta che si avrebbe con la rinuncia al dialogo. In riferimento al tempo, alcuni dicono che sia «il tempo cinese». Io dico che è il tempo di Dio. Andiamo avanti serenamente”.
L’accordo, di cui non si conoscono i contenuti precisi, ha scatenato un vivace dibattito sulla necessità della Chiesa di “sinizzarsi”. Contro l’idea che il cattolicesimo in Cina debba acquisire delle “caratteristiche cinesi”, si è schierato il cardinale cinese Joseph Zen Ze-kiun, vescovo emerito di Hong Kong e strenuo oppositore dell’accordo con il partito comunista cinese. La sinizzazione “è un inutile arzigogolare sul problema” ha commentato l’alto prelato al Foglio, “sono bugie, e chi parla di sinizzazione sa benissimo che non si tratta di inculturazione […] Sinizzazione significa esclusivamente obbedire al Partito comunista”.
In tal senso, l’intesa Cina-Vaticano servirebbe soltanto a controllare la “chiesa sotterranea”, vera spina nel fianco della Cina comunista. Una critica che si unisce alle proteste per l’atteggiamento della Santa Sede verso le manifestazioni ad Hong Kong contro il regime cinese. “In questi ultimi anni non una parola di rimprovero è giunta da Roma riguardo a tutte le malvagità commesse dalla Cina. Tutto il mondo vede come i giovani vengono picchiati, tutti. Nel silenzio generale”, spiega il cardinale Zen, che sembra trovare sponda proprio in quell’amministrazione statunitense uscente che, attraverso Pompeo, ha attaccato la Santa Sede per la poca attenzione alle violazioni dei diritti umani da parte del regime cinese sia in Cina sia ad Hong Kong.
Con una popolazione cattolica che conta dai 29 milioni, secondo le stime governative, ai circa 130 milioni di fedeli, la Cina sembra però destinata ad essere il fulcro della strategia asiatica di apertura della Chiesa. L’Estremo Oriente, dopo l’Africa, si rivela la regione di maggiore espansione per il cattolicesimo: tra il 2010 e il 2017, infatti, si registra un incremento dell’11,2% di credenti cattolici asiatici e del 26,1% africani, contro lo 0,3% dell’Europa. I numerosi viaggi pastorali compiuti in Asia da Francesco durante il suo pontificato (Myanmar, Bangladesh, Thailandia, Giappone) spiegano la volontà della chiesa di puntare sul continente asiatico come nuovo spazio di evangelizzazione. Tenendo ben fermi però due principi di questa “geopolitica dello spirito”, come la definisce Pietro Mattonai: il multilateralismo, come strumento privilegiato di risoluzione delle controversie internazionali, e il perseguimento di una pace sostenibile, concetto lontano dalla semplice deterrenza (anche nucleare). Una strategia per interrompere quella “Terza Guerra Mondiale a pezzi”, di cui il papa aveva parlato proprio al ritorno dal suo viaggio in Corea del Sud.
L’unità prevale sul conflitto
“La solidarietà […] diventa così uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita”
Evangelii Gaudium III. 228
Infine, l’ultima direttrice della politica estera di Francesco è la propensione per il dialogo interreligioso, a favore del quale il papa ha a volte evitato di prendere posizioni di rilievo politico.
Nel conflitto ucraino, ad esempio, la neutralità che il pontefice ha imposto alla Chiesa ucraina è spiegata da Victor Gaetan su Foreign Affairs non soltanto come una volontà di non intromettersi in uno scontro tra interessi politici divergenti, ma anche come il tentativo di preservare l’unità del mondo cristiano e il dialogo con la Chiesa ortodossa russa. Attraverso questa lente è possibile così leggere il rapporto tra Francesco e il presidente russo Vladimir Putin, uno dei leader mondiali con cui il pontefice ha avuto più incontri.
La collusione tra il Patriarcato moscovita e le strutture di potere dello stato russo è infatti una realtà da tempo consolidata e, per questo motivo, la Chiesa ortodossa russa si rivela rivestita anche di una funzione centrale nelle strategie politiche di Putin. L’atteggiamento prudente del papa riguardo all’Ucraina ha permesso di mantenere un canale privilegiato di dialogo con Mosca e con il mondo ortodosso sotto egemonia russa. Una manovra culminata nell’incontro tra Francesco e il patriarca di Mosca Kirill nell’aeroporto di Cuba nel 2016, al termine del quale, i due leader religiosi hanno espresso visioni condivise, sintetizzate in una dichiarazione congiunta di 30 punti.

Ma questo rapporto con Mosca non ha impedito a Bergoglio di lasciare aperto il dialogo con il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo, nonostante il conflitto interno al mondo ortodosso circa l’autocefalia della Chiesa ortodossa ucraina. Particolarmente significativo è stato il viaggio compiuto dai due capi spirituali in Terra Santa nel 2014, ad indicare la volontà di uno stretto scambio ecumenico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa greco-ortodossa.
Non di minore importanza il rapporto intrapreso da Francesco con gli esponenti di rilievo delle altre maggiori religioni. Con il mondo musulmano, il pontefice ha avuto modo di confrontarsi in particolare durante i suoi viaggi in Egitto, nel 2017, e negli Emirati Arabi Uniti, nel 2019. In quest’ultima occasione, in dialogo con Ahmad al-Tayyib, l’imam della moschea-università al-Azhar del Cairo, uno dei più importanti centri d’insegnamento religioso dell’Islam sunnita, il papa ha partecipato alla Conferenza globale sulla fratellanza umana, sostenendo che nel nome di Dio vada ricercata la ricomposizione dei contrasti e la fraternità nella diversità. Un discorso che riprende quanto detto al Cairo due anni prima, quando Francesco aveva parlato di un unico Dio e della necessità del dialogo tra le grandi religioni per arrivare alla pace e alla fratellanza tra i popoli.
Su questa scia, si colloca infine l’incontro, tenutosi a Bangkok un anno fa, con il Supremo Patriarca buddista di Thailandia Somdej Phra Maha Muneewong, in cui Bergoglio ha sostenuto che occasioni di questo tipo “ci ricordano quanto sia importante che le religioni si manifestino sempre più quali fari di speranza, in quanto promotrici e garanti di fraternità”. In definitiva, il progetto politico ed ecumenico di Francesco vede il dialogo interreligioso come una dimensione parallela della politica internazionale: dimostrandosi promotore di un pragmatismo politico tutto sommato inedito, Bergoglio sembra voler dimostrare, negli intenti e nelle azioni, come le religioni del mondo, in virtù della loro natura essenzialmente transnazionale, possano essere uno strumento di pace duratura e di comunione dei popoli.
Una strategia che si incarna pienamente nella traiettoria geopolitica intrapresa dall’attuale pontificato e che, per l’appunto, vede il prevalere del tempo sullo spazio, dell’unità sul conflitto, della realtà sull’idea, del tutto sulla parte.
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