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La Turchia di Erdogan: come il conservatorismo islamico ha ridefinito una nazione

mmbyDaniele Tono
Novembre 19, 2020
in Medio Oriente e Nord Africa
Reading Time: 7min read
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La Turchia di Erdogan: come il conservatorismo islamico ha ridefinito una nazione

Repubblica di Turchia. Questo è il nome dato nel 1923, dopo la caduta dell’Impero Ottomano a seguito della Prima guerra mondiale, al nuovo Stato sorto sulla penisola anatolica.

Il ‘padre’ della Turchia moderna è Atatürk, il fondatore della Repubblica stessa. Fortemente anticlericale rispetto all’Islam, formò uno Stato libero da imposizioni religiose, occidentalista e progressista, con lo sguardo rivolto all’integrazione culturale verso l’Europa.

Il paese ha visto però, molti anni dopo, l’ascesa di un altro uomo dalla personalità forte e discussa allo stesso tempo: Recep Tayyip Erdogan.

Facendo un passo indietro: Erdogan entrò in politica fin da giovanissimo, militando in vari partiti (il Partito della Salvezza Nazionale, il Partito del Benessere e il Partito della virtù)  e diventando sindaco di Istanbul nel 1994. Nel 1998 fu arrestato per aver pronunciato la frase “Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmi, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati”, giudicata un’istigazione all’odio religioso da parte di un tribunale turco. Era  prevedibile già al tempo quale percorso ideologico il futuro premier avrebbe seguito.

Previsione che si realizzò nel 2003, quando Erdogan venne nominato primo ministro dopo la vittoria alle elezioni del suo partito AKP, di stampo conservatore. Dopo undici anni, nel 2014, vinse anche le elezioni presidenziali e diventò il dodicesimo presidente della Turchia, in carica ancora oggi.

Sono passati quindici anni dall’ascesa al potere di Erdogan in Turchia e il Paese ha attraversato numerosi cambiamenti, più o meno profondi. Primo su tutti, un ritorno al ‘passato’ segnalato dai sempre più presenti riferimenti all’ex Impero Ottomano nei discorsi del presidente, volti a richiamare un glorioso passato per auspicare un altrettanto glorioso futuro; lo stesso passato dal quale Atatürk aveva lottato per distaccarsi.

Lo stampo tradizionalista permea anche i settori principali del paese, come ad esempio la scuola: la presidenza turca ha infatti deciso che il darwinismo non verrà più insegnato nelle scuole perché “al di là della comprensione degli studenti”; alcuni critici occidentali hanno suggerito invece che a motivare tale scelta sia la volontà di promuovere la religione islamica nella formazione dei futuri cittadini turchi.

A questo si aggiungono altre politiche come la reintroduzione del hijab per le donne nei posti di lavoro statali o la censura di qualsiasi tipo di pubblicità di alcolici. Difficile capire se la linea che separa Stato e religione sia stata spostata o, più semplicemente, eliminata.

Come è stato raggiunto questo livello di dominio ideologico?

La risposta si può trovare, oltre che nella progressiva erosione ai danni del secolarismo nel corso del tempo dovuta all’invasività della propaganda, in due elementi chiave: il primo rappresentato dal fallito colpo di Stato del 2016, in cui una frangia dell’esercito turco cercò di prendere il controllo del Paese. 

Tentativo fallito per il mancato supporto attivo dei cittadini e dei partiti di opposizione, come invece avevano sperato gli insurrezionisti. Ciò portò all’arresto di oltre 77.000 persone fra militari, poliziotti, giornalisti, politici e giudici, tutti ritenuti ostili al partito e alla sicurezza nazionale. Con questi arresti, di fatto, si facilitò il contenimento e l’eliminazione dalla scena politica delle frange più attive di opposizione. 

In seguito a ciò, il presidente introdusse nel 2018 delle riforme alla Costituzione riguardanti il sistema elettorale, le quali garantiscono ancora oggi minore opposizione alle scelte del capo di Stato da parte del Parlamento.

L’altro elemento è la sempre minore libertà di stampa. Ad oggi risultano circa 340 giornalisti fra arrestati, condannati e ricercati. Amnesty International riporta che un terzo dei giornalisti imprigionati nel mondo si trova proprio in Turchia. A questo si aggiunge anche il controllo dei social media e del Web, dove la mano statale si è fatta sempre più invadente, arrivando a censurarli ed oscurarli.

Gli scontri in campo internazionale

Sul piano diplomatico, tuttavia, Erdogan non ha sempre avuto altrettanto successo. Negli ultimi anni le sue decisioni hanno allontanato le simpatie del mondo occidentale. Ne è esempio l’episodio di Santa Sofia: una ex chiesa e moschea, tramutata poi in museo e sito UNESCO, ora riqualificata nuovamente a moschea. Questo evento ha suscitato sdegno all’interno dell’UE, ma la Turchia risultava un partner scomodo già in precedenza, in particolare dalla crisi dei migranti al confine greco-turco, scatenata dallo stesso Erdogan per motivi (a sua detta) di natura finanziaria.

Altro teatro delicato è quello dello scontro armato fra Armenia e Azerbaijan, dove il presidente ha prevedibilmente preso le parti di quest’ultimo. L’ostilità verso la causa armena era già stata espressa nel 2015, quando aveva negato pubblicamente il genocidio armeno avvenuto agli inizi del ‘900.

Nelle ultime settimane, invece, è emerso un dissidio con la Francia causato da alcune vignette di Charlie Hebdo, ritenute immorali e irrispettose: è possibile ipotizzare che, nell’enfatizzare tali scontri diplomatici, Erdogan si stia rivolgendo al grande numero di persone turche o di origine turca che abitano in Europa, potenzialmente per trovare un tramite che dia peso alle sue parole fuori dai confini nazionali. Non sarebbe la prima volta che il premier turco avanza strategie comunicative di questo tipo, dato che nel 2017 incitò i propri connazionali residenti nel Vecchio continente a fare più figli, rivolgendosi a loro con la frase “Siete il futuro dell’Europa”.

Anche numerosi rappresentanti del mondo islamico hanno mostrato di non apprezzare particolarmente le scelte del Governo turco: c’è chi è in disaccordo con le sue politiche e chi è preoccupato per le mire espansionistiche che potrebbero minare l’indipendenza degli Stati vicini ai confini anatolici, i quali ricalcherebbero i vecchi confini che delimitavano l’Impero Ottomano prima del 1923.

Insomma, l’intraprendenza di Erdogan sul territorio extra-nazionale infastidisce moltissimi attori internazionali indipendentemente dal proprio credo, portando la Turchia “da zero problemi a zero alleati”, come affermato da Arab News.

L’opposizione interna

Questa avversione, però, starebbe iniziando a penetrare anche all’interno del Paese. Altri Stati islamici hanno intrapreso percorsi più o meno simili in direzione di un sempre maggior peso della religione in tutti gli aspetti della vita quotidiana (si vedano i casi di Iran o Pakistan), ma il futuro turco verso questa prospettiva potrebbe iniziare a sgretolarsi già da ora.

Erdogan potrebbe perdere presa sul proprio elettorato e sui propri sostenitori: osservando l’aspetto ideologico, il numero di atei dichiarati in Turchia è triplicato negli ultimi 10 anni; Deutsche Welle riporta che ciò avverrebbe in risposta alle imposizioni religiose operate dal Governo e alla miscela Stato-religione, difficile da gestire per i musulmani avversi al premier. Avversione che sarebbe cresciuta nel periodo recente anche sul piano economico, per le scelte politiche di controllo statale sulla Banca Centrale e per le tensioni geopolitiche, le quali hanno portato la Lira turca a valere sempre meno. Tutto ciò ha generato scontento e preoccupazione nella popolazione, in quanto queste prospettive economiche, che si aggiungono alle difficoltà portate dal Covid-19, potrebbero gettare il paese in una fase di recessione. Recenti sondaggi che si fanno carico dell’opinione popolare mostrano che circa il 60% della popolazione afferma di non approvare il modello presidenziale di conduzione del proprio Paese.

Negli ultimi anni la Turchia di Erdogan ha certamente portato gli occhi del mondo verso di sé. Il presidente non mollerà la presa sulle battaglie da lui ritenute fondamentali, ma il futuro non si prospetta roseo per un Governo alle prese con problemi creatisi dentro e fuori dai propri confini. Ad aggiungersi a ciò è l’isolamento operato da numerosi attori internazionali che potrebbero lasciare la Turchia, finché non cambierà la propria classe politica, ad affrontare il futuro da sola.

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