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Artemis fra la Luna e la Terra: le ricadute strategiche e politiche del nuovo progetto spaziale statunitense

mmbyGabriele Fonda
Novembre 11, 2020
in Nord America
Reading Time: 7min read
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Artemis fra la Luna e la Terra: le ricadute strategiche e politiche del nuovo progetto spaziale statunitense

Il miraggio della Luna pare non abbandonare gli Stati Uniti nemmeno nel periodo cruciale delle elezioni presidenziali. Le ultime notizie inerenti ai futuri progetti extra-atmosferici dell’unico stato ad aver portato propri astronauti sul satellite terrestre danno infatti un quadro generale di un forte e rinnovato interesse statunitense per la Luna, e in generale per lo spazio, che nemmeno la novità della pandemia da Covid–19 ha potuto smorzare. Oltre alla dimensione del fascino per l’ignoto e per la conquista, si agitano numerosi interessi economico-commerciali e di politica estera e interna, sotto le recenti iniziative della National Aeronautics and Space Administration (NASA) e del Governo statunitense.

Un significativo passo verso la ripresa dell’esplorazione lunare è stato compiuto nel settembre 2020: l’amministratore della NASA, Jim Bridenstine, ha presentato i dettagli del nuovo programma lunare statunitense, fortemente implementato dallo stesso Trump nel 2017, che mira a riportare l’uomo sul satellite entro il 2024 e a stabilirvi una sede permanente per la fine del decennio, mantenendo un occhio aperto anche sulla prossima tappa, idealmente rappresentata da Marte.

Il nome del progetto, ricco di significati, va al di là di ogni considerazione immediata: Artemis, in riferimento alla sorella del dio Apollo. Un modo non troppo velato di attribuire al nuovo programma la valenza di virtuale continuazione delle missioni che, fra il 1969 e il 1972, portarono a piantare vittoriosamente nella competizione con l’Unione Sovietica la bandiera statunitense sulla Luna. Quella vittoria, in una corsa allo spazio fortemente caratterizzata sotto l’aspetto politico, propagandistico-ideologico e militare, appare oggi lontana, legata al tempo presente solo da un legame sentimentale. Eppure, il rinnovato slancio statunitense verso lo spazio e la Luna si basa in larga parte proprio su interessi di questo tipo.

Innanzitutto, la nuova missione ha un significato geopolitico. L’approccio statunitense alla cooperazione spaziale è stato interpretato in un’ottica di potenza, collegato alla necessità di affermare e mantenere la propria superiorità militare e strategica sugli avversari. In una fase di rinnovata competizione, lo spazio sembra presentarsi come un’ulteriore dimensione della contrapposizione fra gli Stati Uniti e la Cina, in virtù anche degli importanti progressi compiuti e di quelli ancora più significativi annunciati in questo campo dal paese asiatico che, secondo la US-China Commission del Congresso, intenderebbe portare la Via della seta fino nello spazio.

Al contempo, non può nemmeno essere dimenticato lo storico ruolo della Russia, erede dei primati e delle capacità conquistate dall’URSS nel settore della tecnologia aerospaziale e dell’esplorazione di quanto esistente oltre l’atmosfera. Per gli Stati Uniti è fondamentale detenere un’effettiva capacità di intervento nello spazio extra-atmosferico attraverso rapidi sviluppi tecnologici. In questo, non si esclude anche una loro possibile applicazione militare, oltre a quelle di carattere scientifico o commerciale, come dimostrato dalla prima corsa allo spazio. A riprova di questa necessità, vi è stata la creazione a dicembre 2019, da parte del presidente statunitense Donald Trump, di una nuova Forza Armata, la U.S. Space Force, dedicata alla conduzione di operazioni militari nello spazio.

Ma l’interesse statunitense non è puramente militare. Alla contesa strategica in senso stretto vanno infatti aggiunte le potenziali ricadute di carattere economico–commerciale inerenti allo spazio, che variano da modalità già in uso, relative ai satelliti e il loro lancio, fino allo sfruttamento di risorse materiali presenti su corpi celesti di vario tipo e dimensioni, considerate fondamentali per un’esplorazione dello spazio sicura. È questo il punto maggiormente innovativo e controverso degli Artemis Accords, presentati dallo stesso Bridenstine nel maggio 2020 e descritti come “un insieme comune di princìpi per governare l’esplorazione civile e l’uso dello spazio esterno” con l’obiettivo di “rinvigorire il ruolo dell’America come leader globale nello spazio, promuovendo un uso responsabile delle risorse e aprendo la porta a una nuova epoca di collaborazione internazionale”.

Lo sfruttamento delle risorse spaziali è anche frutto dell’intervento personale del presidente statunitense, che si è concretizzato in un ordine esecutivo firmato ad aprile 2020, prima della presentazione del progetto Artemis. Nel documento, Trump ha ribadito la volontà di realizzare una politica strutturata di sfruttamento delle risorse della Luna e dello spazio in generale, sottolineando al contempo l’assenza di una legislazione internazionale in materia di sfruttamento commerciale. In aggiunta, è stata anche espressa l’assoluta contrarietà degli Stati Uniti a considerare valido il Moon Agreement del 1979, ratificato da soli 18 paesi, fra cui nessuna potenza spaziale, a causa della definizione della Luna, contenuta al suo interno all’articolo 11, come di “patrimonio comune del genere umano”. Ciò vieterebbe, di conseguenza, sia operazioni di natura militare sia qualsiasi rivendicazione di proprietà.

Unico cardine giuridico delle future politiche spaziali per gli USA dovrebbe essere esclusivamente il Trattato sullo spazio esterno del 1967, promosso e firmato dagli Stati Uniti assieme ad altre 102 nazioni. Tale accordo dà un quadro globale per l’uso pacifico dello spazio, ma non regola lo sfruttamento commerciale ed economico dello stesso.

Non si può inoltre ignorare il recente sviluppo, proprio negli Stati Uniti, delle prime compagnie spaziali con finalità commerciali private, che presentano possibili sviluppi potenzialmente importanti sia sotto il profilo economico sia dal punto di vista geopolitico. I primi passi sono già stati compiuti, in occasione della presentazione degli Artemis Accords, con l’apertura ai privati della partecipazione alle future attività di ricerca minerarie sulla Luna. A settembre, inoltre, la NASA ha pubblicato un annuncio per trovare società minerarie private che svolgano attività di campionamento sul nostro satellite.

Tuttavia, pur con un occhio al cielo, gli Stati Uniti non ignorano certo la Terra. E in tal senso, il progetto Artemis pare costituire un’opportunità di rinsaldare le fila delle proprie alleanze e di definire gli schieramenti internazionali così come percepiti a Washington. L’ordine esecutivo di aprile conferiva infatti al segretario di Stato, Mike Pompeo, il compito di avviare trattative internazionali che definissero le nazioni partecipanti al progetto e quindi in lizza per garantire alle rispettive industrie nazionali del settore aerospaziale ingenti investimenti e ricavi. Questo lavoro diplomatico ha infine dato i suoi frutti alla metà dello scorso ottobre, in occasione della firma degli Artemis Accords da parte di Italia, Giappone, Canada, Emirati Arabi Uniti, Gran Bretagna, Lussemburgo ed Australia. Una coalizione certamente di grande rilievo tecnologico–industriale ma al contempo ricca anche di spunti politici.

Va infatti sottolineato, in primo luogo, come si tratti di paesi alleati degli Stati Uniti, quattro dei quali nella cornice della NATO: una situazione giudicata espressione dell’intento statunitense di definire chiaramente il carattere strategicamente americano del progetto, da condurre in opposizione anzitutto alla Cina e, in aggiunta, alla Russia. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti paiono essere intenzionati a compattare gli alleati tramite la scelta (e la conseguente possibilità di prendere parte al programma) dei partecipanti, come dimostrato dal caso italiano. 

L’Italia, unico paese dell’Unione Europea ad aver siglato un memorandum d’intenti per la partecipazione ad Artemis con gli USA, ha infatti conosciuto una rapida inversione di orientamenti in fatto di politica spaziale nell’ambito dell’evoluzione dei rapporti con la Cina, con la quale erano stati firmati negli anni scorsi una serie di accordi di grande valenza scientifica e tecnologica. A ciò ha tuttavia fatto seguito, fra il 2019 e il 2020, un riavvicinamento all’alleato statunitense, in generale maldisposto verso l’apertura italiana a Pechino e nello specifico “alla possibilità che le cooperazioni scientifiche e tecnologiche di paesi occidentali con la Cina ne agevolino l’avanzamento tecnologico e l’incremento della sua influenza globale”. Un riavvicinamento che vede la storica partnership con gli Stati Uniti in campo spaziale rinvigorita non solo dalla partecipazione ad Artemis, ma anche dalla collaborazione a guida italiana ESA–NASA e dal controllo dello sviluppo del modulo translunare I–HAB Gateway. Tuttavia, accanto alla presenza di affermate potenze industriali nel settore aerospaziale, figura l’assenza di altri importanti attori come Germania e Francia.

Infine, anche la politica interna può avere un peso in queste decisioni, con particolare riferimento alla vittoria sancita dalle urne di Joe Biden nelle elezioni presidenziali del 3 novembre. La 2020 Democratic Party Platform, pur avendo espresso sostegno alla NASA e manifestato interesse per l’attuale tabella di marcia degli Artemis Accords, inclusa la possibile prospettiva marziana, non ha citato la possibilità dello sbarco lunare nel 2024. Questo potrebbe profilare quindi un possibile rallentamento del nuovo slancio statunitense nello spazio, che sarà però difficile, sia per la rilevanza internazionale del progetto sia per le necessità globali statunitensi.

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