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SPECIALE ELEZIONI USA 2020 – Il fronte sociale delle elezioni statunitensi

mmMattia FossatibyLara Aurelie Kopp-IsaiaandMattia Fossati
Ottobre 31, 2020
in Speciale
Reading Time: 17 mins read
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SPECIALE ELEZIONI USA 2020 – Il fronte sociale delle elezioni statunitensi

Le elezioni presidenziali statunitensi sono ormai un appuntamento fisso, nel bene e nel male, per l’opinione pubblica occidentale. La corsa per occupare uno dei ruoli più importanti sulla scena internazionale attira l’attenzione del pubblico internazionale, dal momento che il risultato dell’elezione può avere delle conseguenze importanti non solo sulle dinamiche politiche del resto del mondo, ma anche perché gli Stati Uniti rappresentano, almeno in Occidente, un vettore di novità e una chiave di lettura e di comprensione dei fenomeni socio-politici contemporanei. Per questo, MSOIthePost ha deciso di avvicinarsi alle prossime elezioni del 3 novembre con un nuovo progetto editoriale. Esso comprenderà tre speciali sugli aspetti più importanti di questa tornata elettorale e la realizzazione di un podcast. Per poter essere uno strumento di approfondimento utile alla comunità studentesca.

Accanto agli aspetti politici ed economici, gli aspetti sociali giocano sempre un ruolo estremamente importante nelle elezioni statunitensi. Il 2020 è un anno in cui si sono dovute affrontare molteplici crisi: la pandemia globale di Covid-19, la crisi economica e, nel mondo statunitense, le proteste contro le violenza della polizia. Un’analisi di questi fattori è essenziale per poter capire al meglio il voto dei cittadini statunitensi nelle elezioni del 3 novembre.

Gershom Scholem, filosofo israeliano, sosteneva che “nella storia ci sono «momenti plastici», fasi cruciali in cui è possibile agire. Se si decide di farlo, qualcosa succede”. Secondo George Packer è proprio quello che sta avvenendo negli Stati Uniti: la crisi che il paese sta attraversando può portare o al collasso sociale o a un’epoca di grandi riforme radicali.

La comunità afroamericana nelle elezioni statunitensi

Il 25 maggio, a Minneapolis, la polizia uccide George Floyd, un afroamericano disarmato e accusato di aver pagato con una banconota da 20 dollari falsa. All’arrivo della polizia, Floyd viene gettato a terra sullo stomaco con un agente che lo immobilizza. Per oltre 8 minuti, l’agente Derek Chauvin tiene il suo ginocchio premuto sul collo di Floyd, che continua a ripetere “I can’t breathe”. L’uccisione di George Floyd segna l’inizio molteplici manifestazioni e proteste contro la violenza della polizia soprattutto nei confronti della comunità afroamericana. 

La morte di Floyd non è un caso isolato. Dal 2018, quando è stato eletto l’attuale sindaco di Minneapolis, il democratico Jacob Frey, ci sono stati cinque omicidi da parte della polizia, di cui quasi tutti hanno riguardato cittadini neri, come riporta Hugh Eakin. Solo in un caso l’agente responsabile è stato incriminato e condannato: si trattava di un poliziotto nero che aveva sparato a una donna bianca. Negli Stati Uniti, un afroamericano su mille muore per mano della polizia, un dato che rende i maschi neri 2,5 volte più a rischio rispetto ai maschi bianchi. Un sociologo della Rutgers University ha commentato dicendo che “ci sono più probabilità di essere ucciso dalla polizia che di vincere molte lotterie gratta e vinci”. 

Non appena è stato diffuso il video dell’uccisione di Floyd, migliaia di cittadini sono scesi in strada per manifestare. Per quattro notti e quattro giorni Minneapolis è stato lo scenario di proteste, ma queste sono state largamente pacifiche finché la polizia non le ha trattate come insurrezioni usando proiettili di gomma, lacrimogeni e granate stordenti. E a quel punto le proteste si sono trasformate in vere e proprie rivolte, com’era già successo negli anni precedenti. Negli anni ‘70, Martin Luther King, pur dissociandosi dalle rivolte, le riteneva “la lingua degli inascoltati”. Inoltre, come afferma nella sua newsletter Francesco Costa, “finché essere neri comporterà vivere nel terrore di un qualsiasi incontro con la polizia, anche un normalissimo controllo dei documenti; finché una parte minoritaria ma significativa delle forze dell’ordine continuerà a mostrare un tale disprezzo per la vita degli afroamericani; finché gli agenti responsabili di questi comportamenti continueranno a essere assolti […], le proteste e le rivolte periodicamente continueranno, facendo male a tutti”.

Ciò che è successo a Minneapolis non trova origine soltanto nel razzismo, ma nel modo in cui il razzismo sia diventato sistemico negli Stati Uniti: lo schiavismo, l’apartheid e la segregazione, che si è conclusa solamente nel 1964, rappresentano un’eredità sociale, politica e culturale che grava sulla condizione attuale della popolazione nera. Negli Stati Uniti vi è un problema strutturale di razzismo presente in molti aspetti della società: mancato accesso alle cure mediche, basso reddito, difficoltà nell’accesso all’istruzione, mancate opportunità lavorative, discriminazioni sono parte di quella che Rebecca Solnit sul Guardian definisce “violenza strutturale”. Queste condizioni hanno fatto sì che la comunità afroamericana morisse di Covid-19 in proporzioni molto più alte rispetto ad altri gruppi etnici. Questo accade perchè i più colipti dal virus sono gli individui più poveri, senza assistenza sanitaria e senza la possibilità di curarsi, sono le persone con meno diritti . Secondo il giornalista Hugh Eakin, “il virus ha mostrato l’ingiustizia sotterranea che attraversa tutto lo stato: anche se costituiscono solo il 6% della popolazione del Minnesota, i neri sono il 30% dei contagiati ufficiali”. 

Questa situazione si riflette anche nelle opinioni degli statunitensi. Stando a un sondaggio della Monmouth University, il 76% degli statunitensi ritiene che il razzismo e le discriminazioni su base razziale siano un grosso problema per il paese. Per un sondaggio di Reuters/Ipsos, quasi il 90% della popolazione crede che sia necessaria una riforma della polizia, mentre, secondo un sondaggio,commissionato dal Wall Street Journal e NBC, l’80% dei cittadini statunitensi è più preoccupato delle violenze della polizia che di quelle dei manifestanti.

Secondo Dahlia Lithwick, una delle cause delle proteste e delle manifestazioni “è che milioni di persone (la comunità afroamericana) sono stanche di vivere in una società dove ogni loro parola o gesto può farle ammazzare”. Dahlia continua dicendo che non è più possibile vivere e definire “libero” un sistema dove una parte della popolazione può dire e fare quello che vuole senza subirne conseguenze, mentre un’altra non può vivere una vita normale senza avere costantemente la paura di essere uccisa.

Qual è stata la reazione dei candidati alla presidenza davanti alle manifestazioni e alle proteste che vi sono state in tutte le più grandi città statunitensi? Fin dai primi momenti Donald Trump ha adottato una retorica non ha fatto altro che gettare benzina sul fuoco scrivendo su Twitter “When the looting starts, the shooting starts”. L’espressione che Trump ha utilizzato sul social network riprende quella usata nel 1967 da Walter Headley, capo della polizia di Miami. Quest’ultimo, durante una conferenza stampa, dopo mesi di abusi da parte della polizia che avevano aumentato le tensioni razziali, dichiarò che la comunità afroamericana avrebbe “ricevuto una terapia d’urto con pattuglie dotate di fucili a pompa e cani”. E nei disordini dei mesi successivi, la polizia usò più facilmente cani, fucili e aumentò l’azione repressiva nei quartieri neri. Twitter ha segnalato il post contrassegnandolo come esaltatore di violenza. Trump e i suoi consiglieri hanno negato l’intenzione di citare Headley. Ma, come sottolinea Dahlia Lithwick,  anche se fosse stato citato volontariamente, per Trump il significato e il contesto delle parole non sarebbe importante: “Se sei ricco, bianco e privo di una visione del mondo che contempla la reazione degli altri, puoi continuare a vivere in questo modo, senza renderti conto di cosa stai facendo e mai doverne rispondere”.

Siccome né i governatori né i sindaci avevano intenzione di reprimere con durezza le manifestazioni e le proteste, durante una conference call con quest’ultimi il presidente Trump ha dichiarato: “Dovete dominarli. Se non li dominate, state perdendo tempo. Sembrerete un pugno di imbecilli. Li dovete dominare, li dovete arrestare, li dovete processare e li dovete mandare in galera per molto tempo. […] La parola è dominio. Se non dominate le vostre città e il vostro stato, si prenderanno gioco di voi. Noi lo stiamo facendo a Washington, stiamo facendo cose che non si erano mai viste. Avremo il dominio totale”. 

Un altro episodio che è significativo dell’approccio di Donald Trump alle proteste di Black Lives Matter è stato lo sgombero, ordinato dal presidente stesso, della strada che porta dalla Casa Bianca alla St.Paul Episcopal Church. In quest’occasione, centinaia di manifestanti sono stati caricati dalle forze dell’ordine per permettere al presidente di compiere una visita alla chiesa di St.Paul e mostrarsi in pubblico, dopo l’uscita della notizia secondo cui era stato portato nel bunker della Casa Bianca per proteggerlo dalle proteste.

Alcune voci di protesta si sono levate anche da esponenti del Partito Repubblicano. Jim Mattis, ex segretario della Difesa della presidenza di Trump, ha dichiarato al The Atlantic che “non dobbiamo farci distrarre da un piccolo numero di fuorilegge. Queste proteste sono definite dalle decine di migliaia di persone coscienziose che insistono perché teniamo fede ai nostri valori, come popolo e come nazione. […] Militarizzare la risposta del governo crea un conflitto tra l’esercito e i civili. Erode il terreno morale comune che garantisce un legame di fiducia tra le persone in divisa e le persone che hanno giurato di proteggere, e di cui sono parte loro stessi. […] Donald Trump è il primo presidente che non cerca di unire il popolo americano […]. Al contrario, cerca di dividerci. […] Stiamo vedendo le conseguenze di tre anni senza una leadership matura”.

Nel campo democratico, Joe Biden ha vinto le primarie anche grazie ai voti della popolazione afroamericana, specialmente in South Carolina. Fin dalle prime ore delle proteste, Biden si è dimostrato vicino alle rivendicazioni e alle richieste dei manifestanti: ha contattato la famiglia di Floyd e ha incontrato un gruppo di manifestanti, schierandosi dalla loro parte. Biden ha inoltre provato a trovare una soluzione per risolvere il problema della violenza della polizia: pur non volendo tagliare i fondi alla polizia, la vuole riformare e demilitarizzare. A giugno, il Partito Democratico ha presentato al Congresso una proposta di legge, la Justice in Policing Act, considerata da alcuni “una delle più ambiziose mai presentate”. 

Tra i firmatari della proposta vi è Kamala Harris, la candidata alla vicepresidenza con Biden. Essa prevede: il divieto di pratiche d’arresto pericolose, come quella eseguita da Chauvin contro Floyd; la supervisione del Governo federale sui dipartimenti di polizia locali, introdotta da Obama ma smantellata da Trump; corsi d’aggiornamento per gli agenti sui pregiudizi razziali; l’obbligo, da parte degli agenti, d’indossare le body camera; divieto di perquisizione no-knock, senza suonare il campanello e bussare alla porta. 

Questa proposta renderebbe più semplice e rapido perseguire penalmente e incriminare i poliziotti che commettono crimini. La proposta è stata approvata a fine giugno dalla Camera dei rappresentanti, a maggioranza democratica, ma non è stata ancora votata dal Senato, a maggioranza repubblicana, sebbene vi sia una percentuale di repubblicani favorevoli. Il presidente Trump si è opposto alla proposta.

Stando ai sondaggi CBS News del 25 ottobre, la comunità afroamericana sarebbe più propensa a votare per Biden alle elezioni del 3 novembre. La metà degli anziani afroamericani sostiene Biden perché ne condividono gli ideali e la politica, ma non si può dire lo stesso delle generazioni più giovani: solo il 28% ne è veramente entusiasta. La maggior parte dei giovani appartenenti alla comunità afroamericana voterà per Biden soprattutto per opporsi a Trump. 

Gli ultimi mesi sono stati molto difficili e ci sono state molte crisi da gestire, ma al tempo stesso hanno fatto da palcoscenico per la campagna elettorale dei due candidati. Il paese potrebbe trovarsi veramente a un punto di svolta perché, come sostiene George Packer, “in questo momento gli statunitensi, nonostante i conflitti ideologici, concordano su alcuni temi fondamentali: la maggior parte vorrebbe che il governo garantisse una forma d’assistenza sanitaria universale e facesse di più per affrontare la crisi climatica. Sono convinti che i ricchi dovrebbero pagare più tasse, che il razzismo sia un problema serio, […], che il governo federale sia corrotto”. Le crisi del 2020 hanno indebolito la società statunitense e ne hanno evidenziato alcune criticità. 

Ricchezza e povertà: come vota la classe media americana 

Gli Stati Uniti d’America sono sempre stati il paese delle grandi differenze. Chi preferisce non andare in ospedale perché non ha i soldi per pagare l’assicurazione sanitaria e chi si fa ricoverare in una clinica privata spendendo anche 10 mila dollari al giorno. Chi può andare ogni giorno a pranzo nei migliori ristoranti di Manhattan e chi deve accontentarsi del fast food di quartiere. Queste Americhe differenti, tra pochi giorni, saranno chiamate a scegliere il prossimo presidente degli Stati Uniti. Molti cittadini, anzi, hanno già inviato il loro per posta (almeno 88 milioni, secondo le stime del Washington Post). Una competizione che, secondo i sondaggi, sembra scontata: Biden, apparentemente, avrebbe la vittoria in tasca. 

Il punto è: quanto inciderà il portafoglio nella scelta che dovranno compiere gli elettori? Da una ricerca del Pew Research Center, pubblicata a fine giugno, sembra che Donald Trump stia perdendo consensi soprattutto tra i giovani bianchi della classe lavoratrice di età compresa tra i 18 e i 39 anni, vale a dire la fascia sociale che maggiormente è stata colpita dall’ondata di licenziamenti abbattutasi sugli Stati Uniti a seguito dell’epidemia di Covid-19. La maggioranza degli intervistati di questa fascia d’età sostiene che la sua presidenza sia stata “terribile o fallimentare”. Viceversa, le persone dai 40 anni in su conferiscono oltre il 60% dei consensi all’attuale inquilino della Casa Bianca. 

I dati più interessanti provengono però dal differente grado di istruzione degli intervistati: il 64% dei laureati voterà per Joe Biden, viceversa le persone meno scolarizzate sceglieranno Donald Trump. Un dato che rispecchia in modo magistrale la polarizzazione che già si era vista nel corso delle precedenti elezioni presidenziali. Ergo, ancora una volta, la parte più anziana e meno istruita del paese sarà determinante nella scelta che gli elettori saranno chiamati a fare il prossimo 3 novembre.

Come nel 2016, una parte significativa della classe più ricca del paese a stelle e strisce si è schierata con il tycoon della Casa Bianca. Come riferisce il report del 29 febbraio 2020 della Commissione elettorale del Congresso, la campagna elettorale di Donald Trump verrà pagata interamente da un gruppo di 80 filantropi multimilionari, il cui patrimonio ammonta a circa 210 miliardi di dollari. Il 56% dei suoi finanziatori provengono dalla Florida e dal Texas, due degli stati in bilico che portano il maggior numero di delegati. Luoghi dove un voto in più o in meno potrebbe impedire a Joe Biden di raggiungere la quota di 270 grandi elettori necessaria per essere eletto nuovo presidente degli Stati Uniti.

Il nodo della sanità: quali cambiamenti vogliono gli americani?

Il tema della sanità è di sicuro l’elemento decisivo di questa campagna elettorale, come MSOIthePost ha evidenziato in un precedente speciale. Un sondaggio pubblicato da Morning Consult evidenzia che almeno il 20% delle persone di qualsiasi fascia d’età dai 18 ai 65 anni considera centrale il tema della copertura sanitaria che – come sappiamo – negli Stati Uniti è affidata a compagnie assicurative, le quali spesso offrono i propri pacchetti di servizi a prezzi proibitivi per molte famiglie. Di questi tempi parlare di sanità equivale esprimere un giudizio sul Covid-19, piaga che negli Stati Uniti ha già portato alla morte di oltre 220 mila persone.

Il sondaggio del Pew Research Center evidenzia che circa l’81% dei sostenitori di Trump, nonostante la tutt’altro che perfetta gestione della pandemia di coronavirus da parte della Casa Bianca, non ha cambiato giudizio sull’operato del Governo. Questo vuol dire che la partita non si giocherà sui sistemi messi in atto per limitare il contagio, di competenza degli stati federati, ma sulle modifiche al sistema sanitario. 

Difatti, un altro sondaggio, commissionato da Research!America, testimonia che quasi il 73% degli statunitensi interpellati considerano strategico potenziare il sistema sanitario nazionale: la pandemia ha messo infatti in luce tutte le contraddizioni del modello Medicaid, mai ratificato in legge da ben 15 Stati del Sud. Un dato che fa pensare quanto sia gli elettori democratici quanto quelli repubblicani desiderino ottenere maggiori garanzie da parte di Washington in merito alla propria salute. In meno di un anno è stato sconfessato il sondaggio realizzato a dicembre da Gallup, secondo cui il 54% degli intervistati era favorevole all’affidamento della sanità nelle mani delle cliniche private.


D’altro canto, gli statunitensi sono abbastanza scettici riguardo ad un possibile vaccino contro il Covid-19. Il 43% degli intervistati si farebbe inoculare una dose solo su ‘suggerimento del medico’ e addirittura il 19% esclusivamente su consiglio di una celebrità. Un risultato che traccia un’America ben diversa rispetto a quella che i sondaggi dipingono propensa a dare il ‘ben servito’ al quasi-negazionista Donald Trump.

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