La questione del conflitto in Afghanistan è un tema delicato e complesso. Quanto accaduto negli ultimi mesi, infatti, è solo l’ultima tappa di una guerra iniziata nel 2001.
Il 29 febbraio 2020, gli Stati Uniti e i Talebani (Taliban, ossia “studenti coranici”) hanno firmato uno storico accordo di pace, che prevedeva il ritiro delle truppe statunitensi e dei suoi alleati dall’Afghanistan ed in seguito la ricerca di un punto d’incontro tra i Talebani ed il Governo di Kabul. Tale accordo risulta oggi, però, incerto per la sua efficacia nel tempo e per il suo rispetto. I negoziati, infatti, avrebbero dovuto svolgersi a marzo ma sono stati più volte rimandati, a causa della disputa scoppiata riguardo lo scambio di prigionieri che prevedeva il rilascio di centinaia di militanti talebani: atto considerato necessario e preliminare, dai Talebani, per la loro partecipazione ai negoziati. Ad aggiungersi a questa già disastrata situazione è la pandemia, che mette in discussione un accordo già di sua natura irresoluto, dove è evidente che il Governo di Kabul abbia scarsa legittimità al di là del sostegno da parte delle cosiddette democrazie occidentali.
L’accordo trovato dalle parti aveva previsto l’inizio dei colloqui per la stabilizzazione del paese entro il 10 marzo. Questi sono stati però rimandati a causa di un lungo contenzioso sul rilascio di prigionieri talebani. Analizzando sommariamente il merito dell’intesa trovata, la base di tale accordo prevede il ritiro delle truppe statunitensi dal territorio afghano. A ciò va aggiunto l’impegno preso dai Talebani a non permettere che il paese possa ospitare organizzazioni terroristiche decise a pianificare attentati all’estero e, allo stesso modo, a eliminare eventuali collegamenti o relazioni con gruppi di ispirazione jihadista. Relazioni che, secondo un recente rapporto delle Nazioni Unite, sembrerebbero ancora ben salde. Il documento è stato però contestato da Zalmay Khalilzad – inviato della Casa Bianca per la riconciliazione dell’Afghanistan – e dagli stessi Talebani, sebbene questi ultimi non abbiano mai chiaramente ed esplicitamente affermato l’inesistenza di rapporti con Al-Qaeda.

La situazione in seguito all’accordo non sembra però per nulla cambiata. Secondo il generale Kenneth McKenzie, Capo dello U.S. Central Command (Centcom), il livello di violenza è salito a livelli inaccettabili. Lo stesso generale infatti ha dichiarato: “Ci aspettavamo di vedere una riduzione della violenza. E mentre i talebani sono stati scrupolosi nel non attaccare le forze statunitensi o della coalizione, in effetti, la violenza contro gli afghani è maggiore di quanto non lo sia stata da diverso tempo”. Il generale McKenzie poi, ha affrontato il tema relativo al legame tra Talebani e le organizzazioni terroristiche: “Dobbiamo essere certi che l’ISIS e Al-Qaeda non hanno l’opportunità di essere ospitati in Afghanistan realizzando attacchi contro l’Occidente e in questo momento non sono sicuro che i talebani abbiano compiuto passi positivi in quelle aree. Ma il tempo non è scaduto”.
In Afghanistan ci sono state generazioni che sono cresciute senza sapere cosa volesse dire, in concreto, “pace”. I più anziani conservano memorie del conflitto, dall’invasione sovietica alla guerra civile. La problematica base qui, come in tutte le guerre, è il ruolo dei civili e le sofferenze a questi provocate. L’UNHCR – l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati – infatti, chiede protezione e assistenza urgenti per decine di migliaia di civili sfollati a causa della recente escalation di violenza nella provincia meridionale di Helmand, una delle province più difficili in cui intervenire in Afghanistan.
Per il momento, non sembrano dunque esserci segnali di riavvicinamento, né di pace. Una dimostrazione di ciò è l’ultimo degli attentati in ordine di tempo: un’autobomba è stata fatta esplodere vicino alla sede di polizia e ad altri edifici governativi, nella provincia occidentale di Ghor, dove sono rimaste uccise almeno 12 persone e centinaia di feriti. Finora, quest’anno più di 220.000 afghani sono stati sfollati a causa del conflitto, mentre nel 2019 altre 456.000 persone sono state costrette a lasciare le loro case, aggiungendosi a una cifra complessiva di circa 4,1 milioni di sfollati in Afghanistan, solo a partire dal 2012. “Quest’ultima esplosione di violenza e di sfollamento riflette la moltitudine di sfide che l’Afghanistan sta affrontando oggi“, ha affermato Caroline Van Buren, rappresentante dell’UNHCR per l’Afghanistan, riferendosi alla ulteriore crisi derivante dalla diffusione del Covid-19.
Il possibile ritiro a breve delle truppe statunitensi e della coalizione internazionale, senza aver effettivamente trovato una soluzione al caos presente ormai da tempo in Afghanistan, sembra indicare in via definitiva che il conflitto in Afghanistan sia stato un fallimento per i paesi occidentali coinvolti, e che il prezzo più caro sia scontato dai civili afghani.
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