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SPECIALE ELEZIONI USA 2020 – Una possibile svolta per la politica estera Made in USA?

mmbyDavide Paolicchi
Ottobre 20, 2020
in Speciale
Reading Time: 16 mins read
0
SPECIALE ELEZIONI USA 2020 – Una possibile svolta per la politica estera Made in USA?

Le elezioni presidenziali statunitensi sono ormai un appuntamento fisso, nel bene e nel male, per l’opinione pubblica occidentale. La corsa per occupare uno dei ruoli più importanti sulla scena internazionale attira l’attenzione del pubblico internazionale, dal momento che il risultato dell’elezione può avere delle conseguenze importanti non solo sulle dinamiche politiche del resto del mondo, ma anche perché gli Stati Uniti rappresentano, almeno in Occidente, un vettore di novità e una chiave di lettura e di comprensione dei fenomeni socio-politici contemporanei. Per questo, MSOIthePost ha deciso di avvicinarsi alle prossime elezioni del 3 novembre con un nuovo progetto editoriale. Esso comprenderà la realizzazione di tre speciali e di un podcast sugli aspetti più importanti di questa tornata elettorale. Per poter essere uno strumento di approfondimento utile alla comunità studentesca. 

In politica estera, la scelta tra Donald Trump e Joe Biden può comportare delle differenze significative nell’approccio degli Stati Uniti alle grandi questioni internazionali. Infatti, la Costituzione statunitense prevede che sia l’organo esecutivo (il presidente ed il suo gabinetto) ad avere giurisdizione per quanto concerne le relazioni internazionali, i rapporti diplomatici con altri stati, la stipulazione di trattati e accordi. Occorre però aggiungere che vi sono alcune prerogative e contrappesi esercitati anche dal Senato, la camera alta del Congresso statunitense. Pertanto, la politica estera, così come la politica monetaria e della difesa, è di competenza esclusiva del Governo federale.

Allo stesso modo, le diverse dottrine americane nelle relazioni internazionali hanno caratterizzato e caratterizzano tuttora gli equilibri e scenari globali. In particolar modo, gli stati partner e gli alleati del blocco occidentale debbono necessariamente fare riferimento agli interessi e alle pressioni che gli Stati Uniti esercitano. 

Premessa storica

La politica estera statunitense si basa su due eventi storico-politici fondamentali, avvenuti a cavallo del XX e XXI secolo: la fine della Guerra Fredda, con il disfacimento dell’Unione Sovietica, e gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001.

La caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre 1989, segnò simbolicamente la fine della Guerra Fredda, iniziata alla fine della Seconda Guerra Mondiale con la vittoria degli Alleati sulle potenze dell’Asse e contraddistinta dalla contrapposizione tra due blocchi, quello occidentale e quello sovietico. Uno scontro politico, ideologico, sociale, economico e militare tra due modelli di concepimento della società e dello stato. A quasi trent’anni dalla fine della Guerra Fredda, una parte non indifferente dei conflitti politici mondiali possono essere ricondotti a differenti posizioni assunte al tempo dei due blocchi, o a legami diplomatico-militari consolidati in quel periodo: uno degli esempi più recenti è quello della Bielorussia.

Molti leader, deputati e senatori statunitensi, si sono formati politicamente nel periodo della Guerra Fredda e della contrapposizione tra ‘mondo sovietico’ e ‘mondo libero’. Molti, specialmente nel Partito Repubblicano, sono ancora fortemente legati alla contrapposizione tra l’ideologia liberal-democratica ed il pensiero socialista.

Il secondo evento che ha sicuramente caratterizzato questo primo ventennio del XXI secolo sono stati gli attentati dell’11 settembre 2001 e l’inizio della ‘Guerra al terrorismo’ fondamentalista di matrice islamica (Al Qaeda e in seguito Daesh). Si tratta di un elemento fondante il mutamento parziale delle relazioni estere degli Stati Uniti d’America e in parte del resto del mondo occidentale.

Gli ultimi vent’anni della politica estera statunitense, pur se intervallati da ricorrenti scontri diplomatici con gli avversari storici di Washington, sono sempre e comunque stati caratterizzati dall’impegno militare nel contenimento e, nelle più ottimistiche previsioni, annientamento del terrorismo estremista di matrice islamica (principalmente sunnita). Le operazioni condotte in Medio Oriente, in particolare l’intervento massiccio di truppe e risorse in Afghanistan (2001) e in Iraq (2003), hanno caratterizzato pienamente una dottrina di politica estera inaugurata dalla presidenza repubblicana di George W. Bush Jr.. Due campagne che hanno prodotto una sconfitta dei rispettivi avversari, ma anche una perdurante destabilizzazione dei teatri afghano e iracheno, che ha prodotto delle ricadute anche in Siria, Iran e Pakistan.

Una ‘Guerra al terrorismo’ che si è rivelata dispendiosa per i bilanci degli Stati Uniti d’America e sanguinosa per il numero di vittime civili e militari. Essa, inoltre, ha generato nuovi e inquietanti problemi giuridici inerenti il diritto internazionale. Su tutto, l’espressione controversa dei rogue states o “stati canaglia”, riferita da alcuni teorici anglosassoni di scienze politiche a taluni stati considerati una minaccia per la pace mondiale. Il Governo statunitense, all’interno della National Defence Strategy, ha sempre giustificato le proprie azioni come misure di difesa preventiva in risposta ad azioni ed iniziative minacciose intraprese da tali stati. Nessuna delle ultime tre amministrazioni (Bush, Obama e Trump) ha messo in dubbio la legittimità dei propri interventi nel globo. Al di là dei giudizi, che variano in base agli osservatori, è indubbio che i fatti internazionali che hanno riguardato gli Stati Uniti d’America nei primi anni del XXI secolo siano stati tra i più controversi della storia recente.

Scenari attuali

L’attuale momento storico è successivo all’affermazione degli Stati Uniti come unica superpotenza mondiale, che aveva fatto scrivere nel 1992 al politologo Francis Fukuyama la sua più nota e discussa opera The End of History?. In essa, identificava quel preciso momento storico come l’apice del processo di evoluzione sociale, economica e politica da parte dell’umanità, snodo epocale a partire dal quale si sarebbe aperta una fase finale di conclusione della storia. Parallelamente, un altro politologo, Samuel P. Huntington, scriveva nel 1996 un’altra opera divenuta celebre, The Clash of Civilization and the Remaking of World Order. In essa, veniva teorizzata l’ipotesi per cui le grandi divisioni e fonti di conflitto sarebbero derivate, in futuro, da uno scontro culturale, in cui le nazioni avrebbero combattuto schierate in differenti gruppi di civiltà. Entrambe le teorie hanno avuto una vasta eco nel mondo, soprattutto in Occidente, e sono state utilizzate come chiave interpretativa per concettualizzare il nuovo ruolo degli Stati Uniti nel mondo post-Guerra Fredda.

Questi ultimi vent’anni hanno visto l’emergere di una nuova potenza, che sempre di più sta mettendo in crisi la leadership mondiale degli Stati Uniti: la Cina. La crescita economico-finanziaria, diplomatica e militare degli ultimi dieci anni ha inevitabilmente condotto la nazione del Dragone a sfidare apertamente la supremazia statunitense.

La Russia, perduto all’inizio degli anni ‘90 l’aggettivo “super” e mantenendo in qualche modo il sostantivo “potenza”, vorrebbe ritornare ad essere un player fondamentale dello scacchiere internazionale, tornando al ruolo che possedeva nel momento in cui era ancora Unione Sovietica. Vladimir Putin punta ad inserirsi come terzo attore principale in un contesto globale che comunque lo vede protagonista sul piano diplomatico e militare. Priva tuttavia delle basi economico-finanziarie che le consentano di competere con Cina e Stati Uniti, la Russia vorrebbe mantenere un rapporto privilegiato con tutti quegli stati che storicamente sono appartenuti alla sua sfera d’influenza. Basti pensare alla costante sfida alla NATO e all’influenza in Asia Centrale, in Caucaso e in Europa orientale. Non da ultimo, la presidenza di Putin si è caratterizzata per un rinnovato interventismo a favore di regimi vicini agli interessi russi, in particolare nello scenario medio-orientale (Iran, Siria, Egitto su tutti).

Un nuovo contendente degli Stati Uniti, riguardo i propri interessi nel Medio Oriente, Nord-Africa e Asia Centrale è la Turchia di Erdoğan. Questo stato ha subito un radicale mutamento negli ultimi decenni, sia in termini socio-economici sia per quanto riguardo la sua politica estera. Se inizialmente si era tentato di sfruttare l’avvicinamento all’Europa tramite le negoziazioni per l’ingresso nell’Unione europea, negli ultimi anni la Turchia ha perseguito una politica estera sempre più assertiva, con l’obiettivo di possedere una propria zona di influenza. Questo ha fatto sì che si imponesse come importante player regionale, una media potenza con grandi ambizioni ed una posizione strategica, posta da sempre tra Europa, Russia e Medio Oriente: un ponte, ma anche un solco profondo nei rapporti diplomatici internazionali.

Identificati gli attori principali con in questo momento gli interessi statunitensi devono confrontarsi, è utile tenere presente la geografia dei principali scenari in cui gli Stati Uniti si sono impegnati maggiormente negli ultimi anni. Sicuramente, primo fra tutti, il Medio Oriente, in cui la politica estera USA si sviluppa lungo due direttrici: la difesa dello stato di Israele, collegato alla questione palestinese, e la forte e duratura alleanza con l’Arabia Saudita e tutti i principali paesi del Golfo, prima in funzione energetica poi in contrasto del regime iraniano. Inoltre, gli Stati Uniti giocano un ruolo in Iraq, dove si sono impegnati prima a deporre il regime di Saddam Hussein e successivamente a contenere Daesh, e in Siria, attraverso il sostegno ai curdi nella guerra civile contro il regime di Al-Assad e contro Daesh.

Inoltre, gli Stati Uniti sono tuttora coinvolti in relazioni complicate con Afghanistan e Iran. Il primo rimane uno scenario altamente instabile, nonostante il progressivo disimpegno delle truppe della NATO. Il secondo è uno dei nemici storici di Washington nella regione, che declina la propria politica estera sotto vari aspetti: l’avversione pluridecennale ad Israele; la contesa con l’Arabia Saudita per il controllo delle sfere di influenza ed energetiche sui paesi vicini; infine il supporto di Teheran a regimi/partiti politici di ispirazione sciita in Siria, Libano, Iraq e Yemen. Non occorre però dimenticare che l’Iran degli Ayatollah cerca uno stretto collegamento con la Russia e la Cina in funzione anti-statunitense, per uscire dall’isolamento a cui l’ha sottoposto il rinnovo delle sanzioni USA contro il programma nucleare iraniano in seguito alla cessazione unilaterale statunitense dell’accordo del 2015.

Un ultimo teatro geopolitico di rilevante interesse sembrano essere il Sud-Est asiatico e l’India, soprattutto in funzione anti-cinese. I recenti accordi commerciali e diplomatici con paesi di quell’area (India e Vietnam) ed il rafforzamento dei rapporti con i partner storici (Giappone, Corea del Sud e Taiwan), sembrerebbero presupporre l’esigenza statunitense di rafforzare militarmente e diplomaticamente un’area geografica sempre più oggetto degli interessi cinesi.

La campagna elettorale 2020

Nella campagna elettorale delle presidenziali, la politica estera è un tema ricorrente tra i principali contendenti, fonte spesso di gaffe, incomprensioni ed affermazioni dirompenti. Queste elezioni hanno infatti un enorme impatto oltre confine, data non solo la superiorità militare, economica e tecnologica degli Stati Uniti, ma anche la loro influenza culturale e politica a livello globale.

Bisogna comunque sottolineare come l’elettorato e, più in generale l’opinione pubblica statunitensi possiedono una percezione mediamente più sfumata delle implicazioni del proprio paese nelle relazioni internazionali. Nei decenni passati, grande enfasi è stata posta in merito alla sconfitta del comunismo mondiale, al rispetto delle forze armate, all’unità nazional-patriottica di fronte al terrorismo globale e alle ricorrenti crisi con i rogue states più “impudenti”: Iran e Corea del Nord su tutti. Questi ultimi, in particolare, sono legati alle “umiliazioni parziali” subite in passato dagli Stati Uniti d’America, cioè la crisi degli ostaggi in Iran (1979-1981) e l’armistizio della Guerra di Corea (1950-1953).

Da ultimo si è aggiunto un terzo elemento più recente: gli attacchi terroristici dell’11 settembre e i successivi interventi militari in Afghanistan e Iraq. Per l’elettorato americano, questi temi ritornano ciclicamente nel dibattito pubblico, in modo particolare se legati ad eventi tragici nel mondo e riferiti principalmente ad Al Qaeda e Daesh. In egual misura, si sta affermando una certa disaffezione verso conflitti armati “senza fine” e privi di una chiara vittoria. Si aggiunga la mancata trasparenza delle istituzioni centrali e aziende private statunitensi nel fornire chiarimenti e dati riguardanti i consolidati rapporti di molti stati alleati del Golfo con importanti organizzazioni terroristiche.

La “dottrina Trump” e la prospettiva repubblicana alla politica estera

L’amministrazione di Donald Trump ha mantenuto una stretta alleanza e partnership con Israele e gli stati del Golfo per opportunità economiche (estrazione di gas naturale e petrolio) ed elettorali. In quest’ultimo caso, basti osservare la promessa di risoluzione della questione palestinese, che ha prodotto un inequivocabile sbilanciamento a favore di Israele e a danno del popolo palestinese. Conseguenze negative prevedibili si sono avute nei rapporti con il Libano in merito alla questione Hezbollah e l’appoggio ad Israele nel proseguimento della propria contestatissima dottrina di “difesa preventiva” costante in Siria, Libano e Cisgiordania.

Legata al dossier israeliano, vi è la questione dell’Iran sciita, vera ‘spina nel fianco’. Il reale obiettivo degli Stati Uniti, impegnati a mantenere i propri interessi energetici nell’area, sarebbe di supportare gli stati a maggioranza sunnita nel Golfo e la difesa di Israele. Iraq e Siria sono attualmente i campi di battaglia periferici di questo scontro, anche se mascherati dal contrasto a Daesh e al regime sanguinario di Al-Assad. Tra gli attori geopolitici in gioco, non va dimenticata la Russia di Putin, alleata dell’Iran, che attualmente risulta essere una fonte di preoccupazione maggiore per l’amministrazione Trump in Medio Oriente, più di quanto non lo siano le azioni intraprese in Ucraina, Georgia e Bielorussia. 

Un simile discorso potrebbe essere fatto anche per le relazioni degli Stati Uniti con altri tre paesi: il Venezuela chavista, la Cuba post-Castro e la Corea del Nord, il cui regime è legato a doppio filo con Pechino per garantirsi la sopravvivenza. Con questi paesi, l’amministrazione Trump ha iniziato una serie di “scontri muscolari” utili più che altro per finalità elettorali, ma privi di risultati concreti o sfocianti in distensioni durature.

In prospettiva, in caso di un secondo mandato repubblicano, è plausibile che non si avrà altro che una riedizione di periodici ma continui (talvolta fragorosi) contrasti con i rogue states, gli stati rivali sopraelencati, ma anche gli stessi alleati della NATO. Infatti, l’attuale politica estera si basa sulla soddisfazione di esigenze di interesse, più che su un principio ideologico; quegli alleati vecchi e nuovi che possono dare un vantaggio economico, militare, diplomatico, affaristico all’amministrazione Trump manterranno la priorità nelle decisioni presidenziali.

La prospettiva democratica e la “dottrina Obama”

In campo democratico, non esente da finanziamenti e “portatori di interesse” che puntano su entrambi i candidati, la politica estera potrebbe tornare a combaciare con la “dottrina Obama”, interrotta quattro anni fa. Un concepimento delle relazioni diplomatiche maggiormente volto all’accordo e ai trattati bilaterali, una rinnovata fiducia nella NATO e un rafforzamento della cooperazione con gli alleati in ogni continente. Anche i toni muterebbero sicuramente, poiché essi non rincorrerebbero il proprio elettorato ma l’appoggio nel mondo di fronte a stati e nazioni con intenti e modalità più aggressive nelle relazioni internazionali: Russia e Cina. La grande incognita del comportamento della rinnovata azione diplomatica potrebbe riguardare la Corea del Nord, mentre il vero banco di prova potrebbero essere America Latina, Africa e certamente il Medio Oriente.

Infatti, per l’amministrazione Biden, la svolta potrebbe risultare dalla possibilità di stabilire nuove relazioni diplomatiche e commerciali con quei paesi emergenti ancora in via di assestamento politico-economico. Una buona base di consenso tra gli stati di questi continenti andrebbe certamente ricercata in modo meno invasivo (risorse energetiche) e anticipando in modo netto le grandi corporazioni industriali, simbolo del capitalismo americano più disprezzato nel mondo. Elemento non scontato, cui però la figura di Joe Biden non sembra poter porre attualmente un freno. Infatti, pur considerando la sua lunga militanza nelle commissioni esteri del Congresso, lo si ricorda più spesso per il suo appoggio agli interventi in Afghanistan e Iraq. Questi ultimi due stati saranno decisivi per definire la politica estera democratica, poiché occorre progettare e definire in modo chiaro e trasparente come e quando si intende porre un termine al processo di stabilizzazione definitivo dei due paesi.

Da ultimo, ma non di minore importanza: il Medio Oriente. Una più decisa e coraggiosa politica estera basata sul rispetto dei diritti umani, della libertà politica e di parola colliderebbe troppo palesemente con le attuali alleanze nel Golfo. D’altro canto, contribuirebbe a risolvere il problema palestinese, ridimensionando la spregiudicatezza israeliana. Inoltre, rinnoverebbe una nuova stagione nelle relazioni tra Iran e Stati Uniti attraverso il patto di disarmo nucleare, che potrebbe costituire un precedente anche per le relazioni con la Corea del Nord, con la Russia e con la Cina. In ogni caso, fondamentali saranno la qualità, competenza e autorevolezza dei consiglieri e collaboratori che Biden sceglierà per affiancarlo su questi importanti dossier. 

Verso le elezioni

Le elezioni presidenziali statunitensi sono state, sono e saranno sempre seguite con vivo interesse da tutta l’opinione pubblica mondiale. Nonostante l’evidente inizio di una certa perdita di prestigio e di forza economica in seguito alla crisi finanziaria del 2008-2009, le decisioni degli Stati Uniti d’America nelle relazioni internazionali costituiscono un punto fondamentale ineludibile. In modo particolare, ciò riguarda l’Unione europea e la NATO: la prima sta sempre più ricercando un maggiore bilanciamento nei rapporti di forza politico-economici all’interno del blocco occidentale, mentre l’alleanza militare necessità di un aggiornamento all’attuale momento storico internazionale.

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