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SPECIALE – Moria brucia. Un nuovo capitolo per la politica migratoria europea?

mmbySimone Innico
Settembre 26, 2020
in Speciale
Reading Time: 18 mins read
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SPECIALE – Moria brucia. Un nuovo capitolo per la politica migratoria europea?

Nella notte tra l’8 e il 9 settembre 2020, un vasto incendio ha travolto gli accampamenti e le strutture del centro di accoglienza di Moria, sull’isola di Lesvos, Grecia. Questo centro, conosciuto da anni come il più grande hotspot sul territorio europeo, ospitava al momento dell’incendio più di 12.600 richiedenti asilo, tra cui 2.200 donne e 4.000 minorenni. 

La distruzione della quasi totalità dei ricoveri e delle aree comuni del centro ha lasciato senza riparo migliaia di persone e famiglie, le cui condizioni di vita erano negli ultimi tempi aggravate dal sistemico sovraffollamento della base militare e dell’adiacente bosco di ulivi. Il Centro registrazione e identificazione (RIC), disegnato per ospitare un massimo di 3.100 persone, già nel gennaio del 2020 aveva superato il 580% della sua capacità ufficiale, arrivando alla cifra di oltre 18.000 richiedenti asilo.

Incendio di Moria: ricostruzione degli eventi

Pochi minuti prima di mezzanotte di martedì 8 settembre, le organizzazioni umanitarie attive nel campo profughi hanno lanciato l’allarme attraverso i profili social: una serie di fuochi erano scoppiati nelle aree circostanti la struttura ufficiale. Alle 00:05 la ong Stand By Me Lesvos ha informato che i vigili del fuoco erano bloccati all’ingresso del campo a causa di ‘proteste’ da parte dei locali. Ben presto, le fiamme hanno raggiunto l’area dell’ospedale da campo e circa mezz’ora più tardi, riportano le organizzazioni, il fuoco ha travolto anche gli uffici dell’EASO (European Asylum Support Office).

L’incendio infine ha raggiunto la stessa base militare riconvertita a centro d’accoglienza. Senza un preciso intervento delle autorità locali, i richiedenti asilo si sono gettati in una fuga disordinata, mentre nelle aree risparmiate dal fuoco erano iniziati già i furti e i saccheggiamenti. Dopo quasi due ore dal primo allarme, la polizia locale è riuscita ad arrivare sul luogo, imponendo l’immediata evacuazione del centro. A questo punto, si riporta che i richiedenti asilo hanno incontrato sulla loro strada la resistenza violenta da parte dei residenti locali, i quali tentavano di impedire l’accesso al villaggio adiacente. 

Le immagini del 9 settembre, il mattino successivo all’incendio, mostravano una completa devastazione. Moria era sommersa dalla cenere e le fiamme avevano divorato l’80% dell’intera area di accoglienza. Nel disordine e nella disorganizzazione generali, il personale delle organizzazioni umanitarie, tra cui Medici senza Frontiere, ha riportato attacchi da parte di estremisti di destra — un’azione che si inserisce in un clima di consolidata criminalizzazione del lavoro delle ong. 

Si è rivelata necessaria un’intera giornata, per i vigili del fuoco, prima di domare i molteplici focolai ma, ancora una volta, nella notte tra il 9 e il 10, un secondo incendio ha richiesto l’intervento delle autorità. Nei giorni successivi, gli sfollati hanno cercato riparo e riposo nei boschi, sulle spiagge e persino in un cimitero adiacente l’ormai ex-campo profughi.

Un giovane profugo, che ha chiesto di rimanere anonimo, racconta così a MtP la sua esperienza appena scampato all’incendio:

“Tutte le tende del nostro accampamento sono bruciate, non abbiamo un posto dove andare. Abbiamo passato la notte per strada. Abbiamo perso tutti i nostri averi, comprese le coperte per proteggerci dal freddo, e tutte le riserve di cibo. Non possiamo neanche andare in bagno”.

Ben presto, il Governo greco ha dichiarato lo stato d’emergenza per l’intera isola di Lesvos. Una settimana dopo l’incendio, attraverso volantini e comunicati sull’app di messaggistica Viber, il Ministero per l’Immigrazione e l’Asilo ha diffuso la notizia del trasferimento obbligatorio della maggior parte degli sfollati, circa 5.000 richiedenti asilo, in un nuovo campo profughi  nei pressi di Kara Tepe, secondo centro d’accoglienza dell’isola di Lesvos.

Alcuni osservatori non hanno mancato di criticare tale provvedimento. Persino dopo un evento di tali proporzioni, che mette in evidenza la pericolosità intrinseca di un’accoglienza migranti sulla linea della concentrazione di grandi masse in strutture ad uso temporaneo, la soluzione messa in atto dal Governo è basata su un approccio gestionale del tutto analogo. Una pericolosità accentuata, al momento, dal persistente rischio di contagio e trasmissione del Covid-19. 

Un richiedente asilo sfollato da Moria, da poco entrato nel nuovo campo, descrive le sue prime impressioni in questi termini:

“Non sappiamo se sarà un ‘campo chiuso’ o meno, ma di sicuro ci metteranno in quarantena. Ci hanno dato coperte e sapone, ma non basta per tutti. E soprattutto manca acqua potabile. Come gabinetti ci sono solo i WC chimici portatili. Poi, per la distribuzione del cibo, rischi di aspettare anche tre ore in fila. E fanno una sola distribuzione al giorno. Siamo circa 1.000-1.500 nel campo, al momento, non oso immaginare quando saremo tutti e 13.000”. 

Un altro ragazzo, in un messaggio inviato pochi giorni dopo essere sfollato insieme alla famiglia, spiegava così le ragioni che infine lo hanno spinto infine a entrare nella ‘nuova Moria’:

“Siamo stanchi. Abbiamo dato tutto, abbiamo camminato, abbiamo dormito per strada, abbiamo subito i gas lacrimogeni della polizia, abbiamo portato in giro bambini e neonati per giorni… È per questo che abbiamo deciso di andare nel nuovo campo. Non perché si starà bene là dentro, ma solo perché abbiamo bisogno di riposo”.

È importante, al tempo stesso, riconoscere un uso controverso delle comunicazioni ufficiali da parte dell’amministrazione ellenica che, perlomeno in un primo momento, ha esplicitamente espresso l’esistenza di un vincolo tra il proseguimento delle procedure di esame delle domande d’asilo e l’ingresso dei richiedenti nella struttura ricettiva. 

L’apertura di questo nuovo centro, da alcuni già definito una “nuova Moria”, ha dunque visto la reazione di sit-in e proteste spontanee da parte degli stessi richiedenti asilo. I dimostranti, che mostravano cartelli con scritto “Non vogliamo un’altra Moria”, hanno trovato dura risposta da parte delle forze di polizia, che in alcuni casi non hanno esitato a ricorrere all’uso di gas lacrimogeni su intere famiglie di migranti, incluse donne e bambini. 

Una cooperante umanitaria inglese, accorsa a offrire il proprio supporto alle ong di Lesvos, ha riassunto con queste parole la situazione generale, a livello gestionale, a una settimana dall’incendio:

“In pratica, nessuno di noi ha accesso all’area in cui si trova la maggior parte dei profughi, tra il nuovo campo e Kara Tepe, a parte alcune ong che fanno distribuzione di pasti, una volta al giorno. Ancora non è chiaro cosa succederà, c’è confusione e mancanza di comunicazione… non sappiamo a cosa andiamo incontro. C’è stata una chiamata a raccolta da parte delle autorità, i primi due o tre giorni dopo l’incendio, per chiedere alle ong quali servizi e beni non degradabili avremmo potuto fornire. Poi non si è più saputo niente”.

In tanti sono ancora riluttanti a entrare nel nuovo campo, combattuti tra la minaccia di vedere terminato l’esame della loro domanda d’asilo e la possibilità di ritrovarsi confinati in uno nuovo centro detentivo e in condizioni di vita analoghe. Va ricordato, infatti, che la qualità della vita nel campo di Moria era già stata oggetto di denunce da parte di molteplici attori negli scorsi anni, i quali avevano cercato di portare l’attenzione sul sovraffollamento, sugli scarsi standard igienici e sull’insufficiente accesso a servizi medico-sanitari. Particolarmente gravi, a parere di Medici senza Frontiere, le condizioni psicologiche della popolazione più vulnerabile, cioè i minorenni e soprattutto i minori non accompagnati, nei quali si è registrato un allarmante incremento di pensieri depressivo-suicidi, resignation syndrome e autolesionismo. 

La tragica realtà del “campo profughi più grande d’Europa” aveva inoltre già trovato espressione nell’appello dello stesso UNHCR alle autorità greche ed europee. Un appello che, tuttavia, non può trovare risposta in assenza di una solida volontà politica per una riforma del sistema europeo di accoglienza migranti.

I come e i perché di un’emergenza umanitaria preannunciata

L’esecutivo monocolore della destra storica di Nea Dimokratia, insediatosi nel luglio 2019 sotto la leadership di Kyriakos Mitsotakis, ha fortemente risentito nel suo primo anno di Governo di una visione miope per quanto concerne il settore accoglienza.

Nonostante la performance economica relativamente positiva nei primi trimestri di Governo, accompagnata da un persistente impegno nel presentare la Grecia post-Tsipras come un paese investment-friendly e credit sustainable al mercato globale, ben presto il tema migrazioni si è rivelato il vero tasto dolente per l’esecutivo di Atene, sia a livello di percezione popolare sia in seno allo stesso partito di maggioranza. 

Come lo stesso primo ministro ha riconosciuto, alcuni passi falsi erano stati commessi, perlomeno nei primi mesi di Governo, nel senso di una sottostima della questione migratoria: le riforme legislative approvate nell’ottobre 2019, e la generale strategia per l’efficientamento delle procedure amministrative per il diritto d’asilo, non avevano tenuto conto di un possibile incremento nel numero degli arrivi. Incremento che, tuttavia, si è ben presto verificato. 

Al netto di una crisi sanitaria di portata continentale, che necessariamente ha posto sotto stress l’intero sistema-Grecia, il Governo di Atene si trova ora schiacciato tra il fronte interno della crescente emergenza umanitaria sul suo territorio sovrano e, sul fronte esterno, dallo sforzo per preservare l’immagine di interlocutore serio, credibile e responsabile per quanto riguarda gli obblighi comunitari, in particolare circa il rispetto per i diritti umani e lo stato di diritto sul territorio nazionale.

Durante i mesi del lockdown, un notevole calo negli arrivi dalla costa turca, assieme ai costanti trasferimenti di quote di richiedenti asilo nei campi della terraferma, aveva effettivamente giovato alla promessa del Governo Mitsotakis di “decongestionare” le isole dell’Egeo. Tuttavia, sul lungo termine, questa inversione di tendenza non aveva influito in modo percepibile sulla situazione interna ai centri. 

Per quanto riguarda Moria, inoltre, il 2 settembre, dopo che un primo caso di Covid-19 era stato registrato nel campo, l’intera area dell’hotspot era stata posta sotto quarantena da parte delle autorità. Questo aveva comportato un declino improvviso sulle già precarie condizioni di vita dei richiedenti asilo, in termini di accesso ai tutti i servizi essenziali.

Numerosi attori internazionali hanno con insistenza dato voce alla criticità dell’accoglienza migranti in Grecia, sia sulle isole che sulla terraferma. Resta però il fatto che queste circostanze non sono, necessariamente, il prodotto di uno schema prettamente domestico di malagestione e negligenza sistematiche. Sotto certi aspetti, al pari di tutti i paesi dell’Europa mediterranea, la Grecia di Mitsotakis, come quella di Tsipras nel complicato periodo 2015-2019, ha direttamente risentito di quella che si può definire la svolta securitaria delle politiche migratorie europee. In altre parole, la “bomba a orologeria” del campo di Moria non dev’essere intesa come un’eccezione nel sistema d’asilo europeo. Esso sarebbe piuttosto il risultato, strutturale e inevitabile, del design della politica migratoria greca ed europea. Segnatamente, dell’incontro tra i tre principi amministrativo-legislativi che strutturano l’accoglienza migranti in Grecia: il cosiddetto “hotspot approach” inaugurato dalla Commissione Europea nel 2015; la Dichiarazione congiunta UE-Turchia del 2016; e infine una decisione del Sistema d’Asilo nazionale, introdotta nell’ordinamento ellenico nel 2016 e implementata a partire dal 2018.

Nel 2015, l’introduzione da parte della Commissione Europea del “hotspot approach” nell’Agenda on Migration è la risoluzione che in definitiva più ha determinato e indirizzato le politiche migratorie europee degli anni a venire, oltre che la governance interna nei singoli stati membri UE. Un approccio che, con l’istituzione dei vari centri per l’elaborazione rapida delle domande d’asilo nei pressi dei confini comunitari, ha sostanzialmente promosso e garantito una normalizzazione degli strumenti e dei metodi di gestione emergenziale dei flussi migratori, se non addirittura una vera e propria militarizzazione dell’intera questione migratoria, ribadita nel 2016 con l’estensione del mandato dell’Agenzia Europea FRONTEX, tuttora in fase di ulteriore espansione di personale. 

Tale impianto di gestione dei confini comunitari, tuttavia, ha bisogno del contraltare di una serie di accordi bilaterali con i paesi terzi confinanti, interessati dalle maggiori rotte migratorie. Sul versante orientale del Mediterraneo, tale accordo è stato siglato nel 2016 con la Dichiarazione congiunta UE-Turchia (EU-Turkey Agreement), che ha marcato una massiccia esternalizzazione delle misure di contenimento della popolazione migratoria in arrivo in Europa. Fondato sul riconoscimento della Turchia di Erdoğan in quanto “paese terzo sicuro”, nel quale i profughi possono avviare la loro domanda d’asilo, esso è stato fin da subito oggetto di aspra critica sotto molteplici fronti, in primo luogo per quanto concerne le effettive condizioni di vita dei migranti sotto l’amministrazione di Ankara. 

Infine, in Grecia, tale Dichiarazione è stata recepita nel senso di una severa restrizione della libertà di movimento dei profughi nei centri insulari, attraverso la L.4375/2016 (Art. 14-16). Tale provvedimento, ratificato in una Decisione amministrativa del Sistema d’Asilo nazionale approvata nel 2018, tuttora disciplina la cosiddetta “restrizione geografica” che, dato il costante numero di arrivi e la sistemica lentezza delle procedure d’esame delle domande d’asilo, ha prodotto l’impressionante sovraffolamento che ha reso famosa Lesvos, ma che ha interessato in misura analoga le isole di Samos, Leros, Chios e Kos.

In una parola, i RIC come quello di Moria si sono rivelati il collo di bottiglia dei molteplici processi di securitizzazione della cosiddetta “Fortezza Europea”.

  • Il RIC nel settembre 2019
  • Il RIC nel gennaio 2020

Scenari futuri per l’accoglienza migranti in Grecia e in Europa

Il giorno dopo l’incendio di Moria, in un incontro con la Commissione Europarlamentare per le Libertà Civili, la Commissaria Europea agli Affari Interni Ylva Johansson ha chiamato gli stati membri dell’UE a una risposta coordinata e unitaria. Johansson ha inoltre annunciato il suo intento di vedere, a breve, una riforma della politica migratoria europea attraverso un nuovo framework legislativo che consenta, tra le altre cose, una facilitazione delle rotte migratorie legali e programmi di ricollocamento dei richiedenti asilo.

Tra le misure di tutela per categorie vulnerabili messe in atto da parte del Governo greco è in corso un programma per alloggiare circa 2.000 persone in una serie di imbarcazioni della marina militare, oltre che il trasferimento di circa 400 minori non accompagnati da Lesvos alla terraferma. Secondo alcune fonti, un accordo tra Parigi e Berlino potrebbe consentire la redistribuzione di questi bambini e ragazzi in diverse parti del continente. Il Governo olandese, ad esempio, si è dato disponibile a riceverne 50, precisando che la cifra sarà da detrarre dalla quota annuale di 500 ricongiungimenti familiari. 

Anche l’Italia ha risposto all’appello con l’apertura di un corridoio umanitario per 300 profughi dall’isola di Lesvos, con priorità a famiglie e minori non accompagnati. Un risultato reso possibile grazie a una collaborazione tra il Viminale e la Comunità di Sant’Egidio, secondo un modello recentemente sperimentato dall’associazione cattolica con l’accoglienza, a carico della Santa Sede, di 33 richiedenti asilo provenienti da Moria.

La cancelliera tedesca Angela Merkel, inoltre, è riuscita a promuovere una risoluzione per un trasferimento aggiuntivo di 1.500 accolti dalla Grecia alla Germania, in particolare famiglie e minorenni. Al tempo stesso, il Commissario Europeo per la Gestione delle Crisi Janez Lenarčič ha informato dell’offerta da parte della Polonia di accogliere 156 richiedenti asilo dalle isole greche, una posizione condivisa anche dalla Croazia. Fuori dal coro è invece la voce del Governo lituano, il quale si è detto impegnato a gestire l’accoglienza dei profughi dalla vicina Bielorussia. 

I gesti di solidarietà non sono però confinati ai soli membri dell’Unione. La Svizzera, infatti, ha contribuito alla causa comune inviando circa 4 tonnellate di strumentazione igienico-sanitaria e beni essenziali, inclusi apparati per la purificazione idrica che dovrebbero consentire accesso ad acqua potabile per circa 10.000 persone.

In un contesto di generale mediatizzazione e politicizzazione dell’emergenza umanitaria — un frangente che al tempo stesso consente ai diversi attori politici di riaffermare le rispettive posizioni rispetto al tema della solidarietà europea — emerge con maggiore evidenza una doppia attitudine, sul profilo interno e internazionale, da parte del nuovo Governo ellenico nei confronti della questione accoglienza.

Da un lato, nelle dichiarazioni rivolte specificamente al pubblico greco, esponenti di primo piano nel Ministero per le Migrazioni ellenico, compresi il ministro Notis Mitarachis e il suo vice Geiorgos Koumoutsakos, come anche lo stesso primo ministro Mitsotakis, hanno sposato un retorica che inserisce quanto avvenuto a Moria nella logica di un “ricatto”, che alcuni elementi nella popolazione migrante stanno cercando di muovere contro il Governo e lo stato greco per ottenere il trasferimento sulla terraferma. Una posizione sostenuta, per il momento, in assenza di alcuna esplicita evidenza riguardo le cause concrete dell’incendio.

Dall’altro, lo stesso Mitsotakis si fa portavoce di un appello all’intera Unione Europea, in particolare in occasione della visita del presidente del Consiglio Europeo Charles Michel ad Atene, durante la quale il premier ellenico ha dichiarato che “la crisi migratoria è una sfida per l’Europa intera, e non solo dei paesi di frontiera”. Da parte sua, il presidente Michel ha replicato che avrebbe visitato di persona l’isola di Lesvos e ha espresso l’apprezzamento dell’intero Consiglio per l’assunzione di responsabilità e la pronta risposta del Governo ellenico di fronte agli eventi di Moria.

Da ultimo, in occasione dell’atteso Discorso sullo Stato dell’Unione tenuto a Bruxelles il 16 settembre, la presidente Von Der Leyen ha ribadito l’intento della Commissione per vedere approvato il Nuovo Patto sulla Migrazione, sottolineando che “la migrazione è sempre stato un fatto per l’Europa – e lo sarà sempre. Attraverso i secoli, essa ha definito le nostre società, arricchito le nostre culture e dato forma alle nostre vite. E così sarà sempre”. 

A chiusura del dibattito parlamentare a margine del suo discorso, inoltre, la presidente ha espressamente annunciato che, con l’implementazione del Nuovo Patto, l’Europa vedrà il superamento e, anzi, l’abolizione del regolamento di Dublino III, da molti ritenuto la causa principale delle difficoltà sostenute dai paesi dell’Europa meridionale sul fronte accoglienza. 

La proposta della Commissione, presentata infine il 23 settembre in vista di un summit speciale del Consiglio Europeo sulla situazione delle relazioni estere nel Mediterraneo e con la Turchia, pare incentrato su tre principali pilastri che, al momento, potrebbero riaffermare perlomeno in parte l’approccio seguito finora. La “casa a tre piani” della nuova politica migratoria europea, nelle parole del Vicepresidente Europeo per la promozione dello stile di vita europeo Margaritis Schoinas, sarebbe in definitiva costruita sui principi di esternalizzazione delle misure di contenimento dei flussi migratori, securitizzazione dei confini comunitari, solidarietà tra gli stati membri in termini di redistribuzione delle quote migranti. 

Quali scenari siano effettivamente implicati in tale Nuovo Patto sono tuttavia difficili da prevedere con certezza. Gli eventi di Moria potrebbero comunque rivelarsi un punto di svolta per il futuro della cooperazione comunitaria. Perlomeno, è questa la speranza espressa, una decina di giorni prima, dal presidente dell’Europarlamento Sassoli a conclusione di un incontro con il Vicepresidente Schoinas. 

Resta da vedere se, e come, l’Unione e i suoi stati membri saranno capaci di elaborare una posizione politica più responsabile e dinamica nella gestione del fatto migratorio, o se invece l’approccio individualista e reazionario che ha caratterizzato il dibattito sul tema accoglienza e asilo negli ultimi anni prevarrà sul cambio di passo che la nuova Commissione sembra voler imporre. 

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