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Il lavoro in Italia alla prova del Covid-19: che cosa cambierá?

mmbyGiacomo Robasto
Settembre 28, 2020
in Economia e Finanza
Reading Time: 5min read
0
Il lavoro in Italia alla prova del Covid-19: che cosa cambierá?

L’emergenza causata dalla diffusione del nuovo virus SARS-CoV-2 sta continuando a scatenare effetti senza precedenti non soltanto da un punto di vista sanitario, ma anche e soprattutto sul piano economico. Ovunque nel mondo, sin dalla scorsa primavera, numerose aziende sono state costrette a subire una brusca battuta d’arresto dell’attività, da cui non sono stati risparmiati né il settore dei servizi né quello manifatturiero, seppure quest’ultimo in misura minore.

In un 2020 cosí profondamente segnato dalla perdurante pandemia, dunque, é ampiamente prevedibile che, ad eccezione della Cina, saranno numerosissimi i paesi le cui economie termineranno l’anno in recessione, ossia con una crescita del Prodotto Interno Lordo negativa rispetto allo scorso anno. In questo scenario a tinte fosche, anche l’Italia non fa eccezione: se a marzo scorso, infatti, l’ISTAT aveva certificato per il 2019 una crescita del PIL italiano pari allo 0,3% su base annua, le previsioni per il 2020 mostrano una netta inversione di tendenza. Le stime elaborate in estate dalla Commissione Europea prevedono infatti una contrazione del PIL superiore all’11% rispetto al 2019, mentre secondo l’ISTAT essa dovrebbe attestarsi attorno all’8,3%. 

Viste quindi le conseguenze durevoli che la pandemia continuerà a determinare nel breve e medio termine, come potrà reagire il mercato del lavoro italiano per riabbracciare la ripresa nel 2021? Un primo passo potrà essere rappresentato dalla ridistribuzione della forza lavoro tra vari settori differenti, in base alle nuove competenze richieste da un ambiente lavorativo in rapida evoluzione.

Se almeno nel medio periodo, infatti, uno dei settori trainanti dell’economia italiana, come quello del turismo, risulterà essere forse il più fortemente penalizzato principalmente a causa della mancanza di domanda (sino ad un possibile vaccino), le aziende operanti in altri settori, per tornare alla crescita, dovranno adeguarsi al meglio per continuare la loro attività in totale sicurezza, minimizzando il rischio di contagio. É proprio questo il fattore che sta influendo e che più inciderà in futuro sulle nuove modalità di lavoro.

Secondo quanto emerge da una rilevazione condotta dall’ISTAT nel mese di maggio, l’adeguamento degli ambienti di lavoro non è stato sempre immediato ed è variato molto sulla base del settore e della dimensione di ogni azienda. In generale, a maggio, almeno il 56,3% delle imprese italiane (63,2% in termini di occupazione) aveva già adeguato gli spazi di lavoro per assicurare il distanziamento fisico, mentre solo il 14,4% tra esse (10,1% di addetti) aveva dichiarato che gli spazi di lavoro risultavano impossibili da adeguare. 

Dal punto di vista settoriale, l’adozione di questa misura risultava particolarmente difficoltosa nel settore delle costruzioni, dove solo il 42% delle imprese aveva provveduto all’adeguamento, mentre ben il 29,4% affermava di non essere nella condizione di farlo. Molto diversa risultava poi la situazione nel mondo del commercio, sia al dettaglio, sia all’ingrosso: aveva provveduto ad adeguare gli spazi lavorativi il 68,1% delle imprese e solo il 10,2% non lo riteneva possibile. Quanto invece alle dimensioni aziendali, a dichiararsi impossibilitate a farlo sono state il 15,3% delle micro-imprese e l’11,6% delle piccole, che contano rispettivamente fino a 10 e fino a 50 dipendenti. Fra le medie e le grandi, più di due imprese su tre avevano già provveduto alla riorganizzazione degli spazi, mentre solo il 7,4% delle medie e il 4,3% delle grandi affermava di non poterli adeguare.

L’adeguamento degli spazi lavorativi può avere risvolti importanti anche sull’occupazione. Ad oggi, le imprese manifatturiere, dedite alla produzione di beni e servizi, non in grado reperire nuovi spazi per garantire il distanziamento sociale dei dipendenti, si trovano costrette a licenziare personale o a ricorrere temporaneamente agli ammortizzatori sociali (tra cui spiccano la Cassa Integrazione Ordinaria ed in Deroga). Nel settore terziario, invece, la piú alta tendenza ad investire in infrastrutture tecnologiche ed informatiche consente di minimizzare l’impatto occupazionale grazie al ricorso a due innovative soluzioni: il lavoro agile o smart-working ed il telelavoro. Benchè spesso usati come sinonimi, si tratta in realtà di due forme di lavoro differenti: mentre il lavoro agile permette ad ogni dipendente di scegliere la sede lavorativa e di cambiarla in base alle sue esigenze, il telelavoro prevede contrattualmente che la prestazione lavorativa venga svolta da casa a lungo termine.


Non essendo ancora certa l’evoluzione della pandemia nei prossimi mesi, entrambe le soluzioni sembrano soddisfare le esigenze sia dei lavoratori che dei datori di lavoro. Da una parte, i dipendenti possono gestire meglio il proprio equilibrio tra tempo di lavoro e tempo libero, evitando gli spostamenti casa-lavoro. Dall’altra, le imprese beneficiano di minori costi di locazione degli uffici. Alla luce di tali osservazioni, si comprende quindi bene il sempre più frequente ricorso alle suddette forme di lavoro a distanza. È assai prevedibile che, vista la situazione attuale, in futuro lavoro agile e telelavoro siano sempre più prediletti ed accessibili mediante investimenti in formazione professionale ed istruzione sia da parte dei singoli cittadini, sia da parte di imprese ed istituzioni. In attesa che la ricerca scientifica possa permettere Sull’eventualitá di un ritorno alla normalità pre-COVID-19, invece, solo la scienza si potrá esprimere.

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