Parlando della Repubblica Popolare Democratica di Corea (RPDC), o più semplicemente Corea del Nord, l’immaginario comune dipinge una tra le dittature più opache e impenetrabili dei nostri tempi, soprattutto perché le poche informazioni a disposizione provengono solo da fonti di intelligence principalmente statunitensi e sudcoreane, da testimonianze rilasciate da alcuni disertori del regime tra le centinaia in fuga ogni anno o da commenti di analisti, esperti e giornalisti che studiano il paese senza potervi accedere in piena libertà, con tutti i limiti che ciò comporta. In altre parole, in mancanza di informazioni qualificate, ci si ritrova spesso a fare affidamento su ipotesi e indiscrezioni, che restano formalmente tali almeno fino a quando i canali ufficiali interni ne confermano o smentiscono la veridicità.
Il caso più recente ha visto protagonista proprio il presidente Kim Jong-un, trascinato al centro di una bufera mediatica dopo che una sua prolungata assenza sulla scena pubblica è bastata per creare un’ondata di speculazioni circa un suo possibile stato comatoso, se non addirittura di una prematura dipartita, poi dimostratesi delle semplici fake news.
In risposta a questo tipo di critiche e indiscrezioni, liquidate come strumenti di propaganda di forze nemiche esterne, i leader nordcoreani hanno storicamente fatto ricorso a una retorica altisonante e particolarmente aggressiva, rafforzata da una marcata ostentazione bellica e veicolata attraverso i tradizionali canali di comunicazione che afferiscono al Dipartimento di Propaganda e Agitazione.

Tuttavia recentemente Kim Jong-un, lungi dall’aver abbandonato totalmente l’attitudine belligerante e l’ossessione per il nucleare, sembrerebbe aver intrapreso una traiettoria inedita che associa un nuovo stile comunicativo sulle reti sociali al sodalizio con la nascente upper class. Secondo il commento di Kang Dong-wan, esperto di media nordcoreani dell’università sudcoreana Dong-a: “l’idea è di creare un’immagine della Corea del Nord come di un paese normale, far credere agli stranieri che sia un altro paese dove le persone vivono delle vite ordinarie”.
Al fine di veicolare questo messaggio, il leader sta utilizzando sempre di più i social network, capaci di raggiungere istantaneamente un’audience più ampia e vasta. Il canale Youtube “Echo of Truth” sembrerebbe essere stato progettato appositamente con questo scopo. A poco più di tre anni dalla sua creazione, conta oltre due milioni di visualizzazioni e quasi 35.000 iscritti e funge da vetrina sulla vita quotidiana di un nordcoreano comune per far scoprire a utenti da ogni parte del mondo che non è poi così fuori dall’ordinario. Un A, la giovane ragazza che formalmente ha creato e gestisce il canale, ci guida infatti attraverso un mondo lontano da quell’immaginario comune iniziale, che vedrebbe appunto la Corea del Nord come “una dittatura isolata principalmente associata a carestie, abusi dei diritti umani e all’accumulo di armi nucleari”, spiega il New York Times.
Contrariamente alle aspettative, i cittadini nordcoreani, quantomeno quelli immortalati nei video, riempiono fino all’orlo i propri cestini della spesa durante lo shopping e sono entusiasti frequentatori di concerti, parchi divertimento e ristoranti occidentali.
È plausibile immaginare che simili contenuti quantomeno vengano sottoposti al vaglio delle autorità di Pyongyang e che, più che ideati e gestiti in maniera spontanea e indipendente da singoli cittadini, siano in realtà “un’estensione dell’agenda politica di Kim Jong-un al fine di costruire un’immagine raffinata e moderna della nazione nello scenario globalizzato di oggi”, come ritengono alcuni esperti. Secondo uno studio riportato da The Next Web, che valuta i paesi in riferimento al grado di censura di Internet, la Corea del Nord ha infatti registrato la peggiore performance in assoluto sulla base di dieci parametri, tra cui figurano anche le restrizioni imposte sui social media.
In controtendenza con questa classifica, però, lo storico Ian Lankov afferma fin dalle prime righe del suo paper “The Resurgence of a market economy in North Korea” che “la comune opinione sulla Nord Corea come l’ultima dittatura comunista (o socialista o stalinista) del pianeta è ormai obsoleta”. Il coreanista evidenzia come, a dispetto della retorica ufficiale, alcune forze di mercato autonome siano effettivamente presenti nel contesto nordcoreano: esiste infatti una nascente classe imprenditoriale, principalmente urbana, che opera in settori quali quello minerario, della raffinazione e dei trasporti.
La relazione di questi nuovi ricchi con il partito al potere è quasi simbiotica: in segno della propria fedeltà, sono soliti offrire ‘donazioni’, spesso in valuta estera, in cambio di pubbliche onorificenze e della protezione delle proprie attività. Con la sua politica del byungjin, lanciata nel marzo 2013, Kim Jong-un ha infatti ritenuto necessario puntare sul progresso economico in parallelo al rinomato impegno per lo sviluppo di un arsenale nucleare.
Alcuni segnali di crescita del settore privato erano già stati registrati negli ultimi anni Novanta, ma la posizione dell’allora leader Kim Jong-il oscillava tra una netta opposizione e una riluttante accettazione nei confronti di questo tipo di trasformazione economica. È solo con il terzo Kim, suo figlio, che le riforme hanno preso il via, permettendo al settore privato di giocare un ruolo di crescente importanza: secondo le stime citate da Lankov nel suo studio, il contributo del settore privato sul totale del PIL ammonta ad una quota tra il 30% e il 50%. Questi sviluppi hanno indubbiamente contribuito ad alleviare la pressione delle perduranti sanzioni a cui il regime nordcoreano è soggetto ormai da anni.

Al di fuori dei contesti privilegiati di Pyongyang e di poche altre città, in cui i cosiddetti donju, letteralmente “maestri dei soldi”, possono permettersi uno stile di vita agiato e improntato al consumo che ricorda quello dei video di Un A, la maggioranza dei cittadini ordinari conduce un’esistenza decisamente meno fortunata, segnata da malnutrizione e scarsità di cibo. Come dimostra l’allarme lanciato dalle Nazioni Unite, la pandemia in corso ha infatti portato alla luce la persistente problematica dell’insicurezza alimentare, che la chiusura delle frontiere, decretata il 31 gennaio, non ha che esacerbato.
La preoccupazione per la gestione degli approvvigionamenti alimentari ha trovato spazio anche in diverse testate giornalistiche. Il 22 aprile 2020 il NK News ha dato notizia della difficoltà nel reperire non solo prodotti d’importazione, ma persino alimenti di base come frutta, verdura e zucchero, citando sia expats sia fonti presenti a Pyongyang. Anche in questo caso, il regime pare aver dispiegato i mezzi a propria disposizione per smentire la notizia in perfetto stile social: dopo soli 3 giorni, sul canale “Echo of Truth” è stato caricato un video in cui Un A si appresta ad accertare la disponibilità dei prodotti e la stabilità dei prezzi intervistando alcuni clienti di un supermercato e concludendo con “penso che le fake news siano l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno in questo periodo di dura battaglia contro il Covid-19”.

Ancora una volta, i social network sembrano fungere da moderno rinforzo ai tradizionali canali di comunicazione governativa: figure come quella di Ri Chun-hee, la storica presentatrice in abito tradizionale rosa della KCTV, la televisione di stato, divenuta celebre per il trasporto e lo stile roboante con cui accompagnava gli annunci importanti, dalla morte dei Grandi Leader al successo dei test nucleari, cedono il passo a giovani videoblogger che, con uno stile decisamente più informale e accattivante, ci presentano la vita mondana dei nordcoreani, o meglio, di coloro i quali hanno tratto i maggiori benefici dall’arrivo al potere di Kim Jong-un.
La combinazione risulta particolarmente azzeccata: i moderni contenuti multimediali, spesso offerti in lingua inglese sui social più utilizzati all’estero, risultano particolarmente attrattivi per l’audience straniera. In aggiunta, il coinvolgimento della classe media emergente permette, da un lato, di dare ampia visibilità all’operato di Kim in termini di performance economica, nella speranza di trarne una maggiore legittimazione sul piano internazionale, e, dall’altro, di incontrare la sensibilità del pubblico occidentale che potrebbe iniziare a considerare la Corea del Nord sempre meno come un outsider.
Indubbiamente, pur prendendo atto dell’opera di modernizzazione in campo economico portata avanti dall’ultimo Kim, è bene non trascurare le perduranti problematiche in termini di violazione dei diritti umani e povertà diffusa. Se ne può concludere che, lungi dall’essere messaggi apolitici, quelli che ci giungono tramite i social sono contenuti creati ad arte per rispecchiare un chiaro obiettivo strategico. Il leader nordcoreano sta tentando come può di disfarsi dell’immagine di ‘regno eremita’ per essere accolto nel club delle potenze ‘normali’. Anche se, come appare ormai chiaro, a risuonare nei suoi canali YouTube, più che l’eco di un’autentica verità, è la voce della realtà che Pyongyang vuole lasciarci conoscere.
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