Nello scenario globale della pandemia da Covid-19, l’Asia Orientale merita particolare attenzione, proprio perché gli stati che si trovano nelle immediate vicinanze della Repubblica Popolare Cinese, primo focolaio del nuovo coronavirus, sono stati anche quelli che hanno mostrato di saper meglio gestire l’emergenza. Hanno infatti riportato ad oggi tassi di infezione e mortalità decisamente inferiori a quelli dei principali paesi occidentali: ad esempio, secondo i dati riportati dalla Johns Hopkins University, gli Stati Uniti figurano in prima posizione sia per numero di casi confermati che di decessi e, contrariamente alle aspettative, nessun paese dell’Asia Orientale figura nelle due top ten.
Tra i vari fattori che concorrono a spiegare questo fenomeno, il differente sistema culturale comporta che la popolazione sia tendenzialmente più incline a rinunciare alle libertà personali a beneficio dell’obiettivo comune della sicurezza pubblica. Tuttavia, non va trascurato che questioni quali la privacy e la tutela delle minoranze costituiscono un motivo di crescente preoccupazione anche tra le società e le autorità dell’Asia Orientale.
Tra i vari modelli di successo nella gestione della crisi, quello sudcoreano ha guadagnato un significativo supporto internazionale. Se a fine febbraio era seconda solo alla Cina tra i paesi più colpiti, la Corea del Sud si è presto rivelata “un campione nell’approccio comprensivo alla risposta e al controllo di questa pandemia”, come definita dallo stesso Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, in un tweet del 6 aprile. A dispetto della prossimità geografica alla Cina e dell’alta densità demografica, l’utilizzo di avanzati strumenti tecnologici per la raccolta digitalizzata dei dati, nonché la presenza di una sofisticata industria biotech per la produzione di test diagnostici, hanno giocato a favore della pronta ed efficace risposta sudcoreana all’emergenza.
L’amara lezione appresa in occasione dello scoppio dell’epidemia di MERS (Middle East Respiratory Syndrome) nel 2015, di fronte alla quale Seoul si scoprì impreparata, favorì l’approvazione nello stesso anno dell’Infectious Disease Prevention and Control Act. Il provvedimento da allora conferisce alle autorità sanitarie il potere di accedere a informazioni quali le immagini delle telecamere di sicurezza, le transazioni delle carte di credito e la localizzazione degli smartphone dei cittadini sudcoreani. Al fine di snellire le procedure burocratiche, questo sistema, di per sè già alquanto invasivo, è stato implementato attraverso la creazione dell’Epidemic Investigation Support System (EISS). Si tratta di una piattaforma digitalizzata di condivisione dei dati, che consente alle autorità di risalire con precisione, e praticamente in tempo reale, agli spostamenti di coloro che risultano positivi al Covid-19, così da poter facilmente rintracciare i contagi correlati. Queste informazioni sono poi messe a disposizione della cittadinanza attraverso un sistema di alert tramite SMS e un’apposita app, i quali concorrono a perfezionare una procedura che, fino al mese scorso, sembrava aver permesso alle autorità sudcoreane di contrastare efficacemente la diffusione del contagio senza dover ricorrere a un lockdown totale.
Le contraddizioni insite in questo innovativo meccanismo, però, non hanno tardato a manifestarsi. All’inizio di maggio, quando il paese si avviava verso un graduale allentamento delle norme di distanziamento sociale, un nuovo focolaio è stato registrato nel quartiere della movida di Itaewon a Seoul, portando alla luce un dibattito che si interroga sulla conciliabilità tra sicurezza pubblica e privacy. La notizia del nuovo cluster, che al 28 maggio contava 250 nuovi casi di infezione riconducibili all’area di Itaewon, ha avuto delle serie ripercussioni. La zona rappresenta un eccezionale contesto in cui la comunità LGBTQ+ può sentirsi a proprio agio ed esprimersi liberamente in uno dei paesi che, tra i membri dell’OCSE, si dimostra tra i meno inclusivi nei confronti di questo gruppo. Di conseguenza, nel momento in cui la strategia di raccolta capillare di dati personali e di diffusione delle informazioni relative ai contagiati si è scontrata con l’assenza di leggi contro le discriminazioni sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, la tenuta del modello sudcoreano è stata messa a dura prova.

Come illustrato da The Diplomat, “quando un nuovo caso di COVID-19 viene confermato, l’età, il genere, gli spostamenti, l’area di residenza e in alcuni casi la professione o il cognome dell’individuo infetto sono resi pubblici”, facendo della trasparenza il presupposto per il successo del metodo “test, trace, contain”. Inoltre, dai gruppi di sostegno per i diritti LGBTQ+ sono giunte diverse critiche ai media sudcoreani, accusati di aver peggiorato la già difficile condizione di discriminazione che la comunità sta vivendo. I media “sono ossessionati dal rivelare l’orientamento sessuale dei casi confermati e dal riesumare informazioni che non hanno nulla a che fare con la malattia”, come emerge da una dichiarazione di Solidarity for LGBT Human Rights of Korea riportata da CNN. Pertanto, il timore di ripercussioni sul luogo di lavoro e nelle relazioni familiari, nonché del più generalizzato stigma sociale, ha generato un senso di frustrazione tra i membri della comunità LGBTQ+.
A questo proposito, Sung-il Cho, docente di epidemiologia presso la Seoul National University, ha segnalato al TIME che molti tra coloro “che non sono stati identificati potrebbero essere riluttanti a uscire allo scoperto, per cui il tracciamento potrebbe non essere completo come prima”. Contrariamente a quanto avvenuto in occasione della vicenda legata alla sede di Daegu della Chiesa di Gesù Shincheonji, la setta religiosa segreta che a febbraio si è resa responsabile della prima impennata di diffusione del virus nel paese, per le autorità è risultato insolitamente problematico rintracciare i circa 5500 individui a rischio che si presume abbiano visitato i locali notturni dell’area nel periodo dello scoppio del focolaio per poterli sottoporre a test generalizzati.
La questione di Itaewon ha palesato il rischio di vanificare gli sforzi compiuti dalla popolazione sudcoreana, la cui maggioranza si è finora mostrata d’accordo con le misure di gestione della crisi messe in atto dall’amministrazione del presidente Moon Jae-in. La schiacciante vittoria riportata in occasione delle elezioni parlamentari del 15 aprile è stata infatti interpretata come un chiaro verdetto della popolazione in merito al successo della risposta alla pandemia portata avanti dal suo governo. Tuttavia, il presidente si è subito trovato a dover fronteggiare un contrasto emerso con tutta la sua forza in seguito al caso di Itaewon, che vede i settori più conservatori della società contrapporsi alla collettività LGBTQ+, supportata da coloro che si dichiarano favorevoli alla concessione di una loro maggiore tutela sul piano legislativo. Sostenuta anche da diverse agenzie internazionali e ONG, tra cui Human Rights Watch, la comunità sta non solo esercitando pressione affinchè il problema delle discriminazioni venga preso seriamente in considerazione dalle autorità, ma sta anche assumendo un ruolo crescente nel dare forma al dibattito sul difficile compromesso tra la tutela delle libertà individuali e la sanità pubblica.
L’indisponibilità di alcuni membri del gruppo LGBTQ+ a collaborare con le autorità nella lotta al Covid-19, nel timore di un non meno preoccupante conflitto con la società in cui vivono, può mettere a repentaglio l’intero sistema di gestione della pandemia. Se, da un lato, la Corea del Sud ha fatto affidamento sulla tecnologia per quanto riguarda il contact tracing, dall’altro la politica di uso esteso dei tamponi rende imprescindibile la cooperazione volontaria della cittadinanza.

In risposta ai timori della comunità in questione, è stata introdotta la possibilità di essere testati in modo anonimo. Persino Hong Seok Cheon, una tra le poche celebrità apertamente gay nel panorama sudcoreano, si è pronunciato a sostegno della cooperazione in questa situazione di emergenza, esortando ad avere il coraggio di sottoporsi ai test “così che gli sforzi delle autorità sanitarie, degli operatori sanitari e dei cittadini non vadano sprecati” e conseguentemente evitare una seconda onda di contagi.
L’attenzione sul caso di Itaewon potrebbe rappresentare la giusta spinta in direzione della sensibilizzazione del problema dell’omofobia e di più solida legislazione in materia di diritti civili, ma soprattutto potrebbe indurre le autorità di Seoul a dover ricalibrare il delicato equilibrio tra la tutela del singolo cittadino e la preservazione della sicurezza pubblica.
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