Nonostante le recenti testimonianze di proficua cooperazione nell’ambito dell’emergenza sanitaria legata al Covid-19, il processo di pace in Medio Oriente potrebbe subire una decisa battuta d’arresto nei mesi a venire. Il nuovo Governo di coalizione israeliano, guidato da Benjamin Netanyahu e Benny Gantz, ha infatti annunciato di voler procedere all’annessione di alcuni territori palestinesi occupati. Ciò renderebbe così la “soluzione dei due stati” sempre meno probabile, o quanto meno inaccettabile alle autorità di Ramallah. Quest’ultime si sono già mostrate profondamente contrariate per la recente proposta dell’amministrazione Trump di un ennesimo piano di spartizione della Palestina tra arabi ed israeliani, che andrebbe a consolidare alcuni insediamenti di Israele nei territori palestinesi occupati.

La disputa fra israeliani e palestinesi è una delle più spinose controversie politiche del nostro tempo. Tuttavia, si può tentare di analizzarla dal punto di vista del diritto internazionale. Come affermato dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) nel parere sulle Armi Nucleari, “il fatto che tale questione abbia anche aspetti politici, come, nella natura delle cose, è il caso di così tante domande che sorgono nella vita internazionale, non è sufficiente a privarla del suo carattere di ‘questione legale’”.
Dalla conclusione della Guerra dei Sei Giorni del giugno 1967, Israele ha finito per occupare i territori già appartenenti al mandato britannico sulla Palestina. Lo status giuridico dei territori palestinesi è definito dalla maggioranza della dottrina e della giurisprudenza internazionali quale occupazione bellica. Tale situazione si realizza quando un belligerante si impossessa di parti del territorio nemico o della sua totalità. Nel parere “Muro in Palestina”, la CIG considera un territorio occupato “quando questo è effettivamente posto sotto l’autorità dell’esercito ostile e l’occupazione si estende solo al territorio in cui tale autorità è stata istituita e può essere esercitata”. Al contempo, da tale regime deriva l’impossibilità di procedere all’annessione, secondo gli obblighi imposti alla potenza occupante dalla IV Convenzione di Ginevra, uno dei quattro trattati fondamentali del diritto internazionale umanitario.
L’opposizione israeliana alla tesi fin qui esposta deriverebbe dal fatto che “sul territorio come la Cisgiordania non esisteva un precedente sovrano legittimo”. Questa visione è stata rigettata dalla CIG nel parere “Muro in Palestina”, in cui si è riaffermato che, ai fini dell’applicazione della IV Convenzione di Ginevra, è irrilevante quale fosse lo status dei territori prima dell’occupazione israeliana. Non rilevano infatti, ai fini dell’applicabilità del diritto internazionale umanitario, le condizioni che hanno portato allo status di guerra. Si tratta, quindi, di un regime che si applica dal momento in cui sussiste lo stato di guerra o di occupazione bellica, e continua fintantoché a tale situazione non si pone fine.
Inoltre, volendo sottoscrivere a questa tesi israeliana, si arriverebbe ad ammettere che, alla data del 1948, quando vennero invasi dalle forze della Transgiordania nella prima guerra arabo-israeliana, i territori palestinesi occupati non fossero altro che una terra nullius, senza considerare invece il regime mandatario della Società delle Nazioni (SdN) che ne governava la sovranità.
È proprio l’esistenza del precedente regime mandatario della SdN a far propendere per un ulteriore limite alla libertà di annessione paventata dagli israeliani: il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. Tale diritto è inscritto all’Art. 1(2) della Carta dell’ONU ed è stato classificato dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) quale obbligo erga omnes nel caso Timor Est. La sua applicabilità ai territori palestinesi occupati deriva proprio dalla corrente situazione di occupatio bellica ed è stata esplicitamente riaffermata in numerose risoluzioni degli organi onusiani. Da tale diritto deriva l’obbligo di concedere l’indipendenza ai popoli in lotta per l’autodeterminazione, circostanza che si vedrebbe evidentemente ridimensionata, se non del tutto annullata, nel caso in cui si concretizzasse un’annessione.
Le conseguenze giuridiche di un’annessione israeliana dei territori palestinesi sarebbero molteplici. In primo luogo, il diritto internazionale contemporaneo non contempla l’annessione quale legittima forma di acquisizione del territorio, secondo il logico corollario del divieto cogente di uso della forza nelle relazioni internazionali. Dunque, se Israele vorrà procedere all’annessione dei territori palestinesi occupati, tale azione sarebbe da considerare nulla e non avvenuta, sulla falsariga di quanto accadde nel corso della Prima Guerra del Golfo con i territori kuwaitiani invasi dall’Iraq.
In secondo luogo, l’annessione potrebbe portare alla negazione del diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione. Il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione è riconosciuto da numerose risoluzioni dell’Assemblea Generale ed è “uno dei principi essenziali del diritto internazionale contemporaneo”, secondo la CIG. Il procuratore della Corte Penale Internazionale (CPI) ha affermato che, “alla luce del principio di autodeterminazione, la sovranità ed il titolo territoriale in un territorio occupato non sono attribuiti alla potenza occupante, ma rimangono con la popolazione posta sotto occupazione”. In sostanza, un’eventuale annessione concretizzerebbe un duplice illecito: non solo l’illiceità dell’annessione in sé, ma anche la concomitante negazione del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. Le stesse autorità israeliane riconoscono che “in termini legali, la Cisgiordania è meglio considerata come territorio sul quale vi sono rivendicazioni concorrenti che dovrebbero essere risolte nei negoziati sul processo di pace”. Ora, un’annessione unilaterale da parte del Governo di Tel Aviv potrebbe avere delle conseguenze nefaste su tale negoziato.
Se è quindi pacifico che tale atto concretizzerebbe un illecito internazionale tale da violare una norma cogente, ciò imporrebbe al contempo degli obblighi di non riconoscimento di tale illecito a tutti i membri della comunità internazionale. In primis, perché andrebbe contro le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza in materia – ad esempio, la n.242, in cui si riafferma “l’inammissibilità dell’acquisizione del territorio tramite ricorso alla guerra”, ma anche la n.2334 del 2016 – vincolanti per tutti gli stati membri ex cap. VII della Carta. Ma, in modo più generale, gli articoli sulla responsabilità degli stati per atti internazionalmente illeciti impongono agli stati terzi l’obbligo di non riconoscere situazioni giuridiche derivanti dalla violazione di norme di diritto internazionale cogente (Artt. 40-41). Questa situazione è esplicitamente applicabile al caso di specie: nel parere “Muro in Palestina”, la CIG ha statuito che “tutti gli Stati hanno l’obbligo di non riconoscere la situazione illegale derivante dalla costruzione del muro e di non fornire aiuti o assistenza per mantenere la situazione creata da tale costruzione”.
Dunque, le posizioni dell’attuale amministrazione statunitense, che si è espressa in modo favorevole ad un eventuale riconoscimento della sovranità israeliana su alcune aree occupate, comporterebbero anch’esse un illecito internazionale.

Altri stati hanno invece già annunciato di essere pronti a reagire negativamente a tale azione israeliana. Le autorità della Giordania si sono dichiarate pronte a denunciare il trattato di pace concluso con Israele nel caso in cui le autorità di quest’ultimo procedessero all’annessione dei territori palestinesi occupati. Una circostanza prevista dal diritto internazionale quale possibile causa di estinzione del trattato, vuoi come mutamento fondamentale delle circostanze, vuoi come violazione materiale dell’accordo stesso.
Infine, le conseguenze giuridiche non si limiterebbero alla sola responsabilità statale ma si estenderebbero ad eventuali risvolti di responsabilità penale internazionale. La Palestina ha depositato lo strumento di adesione alla Corte Penale Internazionale il 2 gennaio 2015, riferendo al procuratore la situazione nei territori palestinesi occupati ex Art. 14 dello Statuto di Roma. Nelle more della decisione sulla giurisdizione posta alla Camera Preliminare dal procuratore, secondo l’opinione di quest’ultimo la Corte può esercitare la propria giurisdizione sui territori palestinesi occupati, indipendentemente dagli aperti dibattiti sulla statualità della Palestina, in quanto eventuali limiti all’effettività del governo di Ramallah sarebbero in parte derivanti dall’illecita occupazione dei suoi territori. Insomma, pur prescindendo dal voler definire la questione della statualità della Palestina, secondo il procuratore “le limitazioni dell’autorità palestinese sulla totalità del territorio palestinese occupato non dovrebbero essere fatali per la determinazione della Corte”.
Un’eventuale giurisdizione della CPI comporterebbe la possibilità per gli individui che abbiano commesso delle violazioni dei c.d. “core crimes” (i crimini internazionali contemplati dallo Statuto di Roma della CPI) nei territori palestinesi occupati di essere perseguiti, a certe condizioni, dalla Corte dell’Aia, e ciò a prescindere dal fatto che Israele non abbia mai ratificato il trattato di adesione o prestato il proprio consenso alla giurisdizione della CPI.