Il commercio marittimo è sempre stato uno dei cardini dello sviluppo economico europeo e, più in generale, mondiale. La pirateria mina alla base questo sviluppo ed è passata dall’essere un problema regionale ad una questione su scala globale, che costituisce una minaccia concreta alla sicurezza internazionale. La pirateria nasce come un fenomeno con ricadute sul piano economico e commerciale, ma si è esteso successivamente anche sul piano umanitario.
Nonostante il grande dispiegamento di forze dei paesi occidentali, la pirateria è divenuta un problema che abbraccia tanto l’ambito politico quanto quello giuridico ed economico. La sua diffusione è avvenuta rapidamente e ha fatto il suo corso in larga parte sulle coste del Corno d’Africa a partire dagli anni ‘90, quando la Somalia è stata etichettata internazionalmente come “failed state”, a causa dell’assenza di un Governo effettivo e indipendente, dotato dei requisiti di diritto internazionale attraverso i quali potesse essere riconosciuto come stato sovrano. Sebbene di recente il paese abbia mostrato segni di miglioramento, l’apparato statale resta ancora fragile e frammentato, come dimostra l’anomalia geopolitica del Somaliland.
La pirateria però ha allargato il proprio raggio d’azione e si è espansa anche sulle coste dell’Africa occidentale, precisamente nel Golfo di Guinea. Qui, anche una fregata italiana è stata recentemente coinvolta nel soccorso di un mercantile battente bandiera greca, il cui capitano ha dichiarato di aver subito un tentativo di abbordaggio da parte di una piccola imbarcazione con uomini armati a bordo.

Estirpare la pirateria è un obiettivo ampiamente condiviso, come dimostra l’impegno nel contrasto a questo fenomeno di tre tra i principali attori del sistema internazionale – Unione europea, NATO e Nazioni Unite. Un primo segnale importante arrivò già con la Convenzione della Nazioni Unite sul Diritto del Mare, aperta alla firma nel 1982 a Montego Bay, in Giamaica, e per questo conosciuta anche come Convenzione di Montego Bay. L’obiettivo di questo trattato era, ed è tuttora, di garantire una disciplina generale allo sfruttamento dei mari e delle relative risorse. Sebbene non sia stato interamente dedicato al fenomeno in questione, esso presenta dei concetti di grande rilievo. La Convenzione introduce il tema della pirateria con l’articolo 100, che invita tutti gli stati a porre le basi per la massima collaborazione ai fini della sua repressione. L’articolo 101 la definisce da un punto di vista giuridico: per pirateria si intendono tutti gli atti illeciti di violenza, di sequestro o di rapina, commessi a fini privati dall’equipaggio di una nave e commessi “nell’alto mare, contro un’altra nave o contro persone o beni da essi trasportati”.
Nella stessa prospettiva, la dottrina giuridica prevede un limitato diritto di visita delle navi altrui in alto mare da parte di una nave da guerra, la quale non può fermare un’altra nave mercantile, a meno che non abbia seri motivi per sospettare “che la nave pratichi la pirateria” o tratta degli schiavi. Inoltre, il diritto di visita può essere esercitato qualora la nave sottoposta a controllo non renda manifesta la propria nazionalità.
Per il contrasto della pirateria sono state istituite varie forme di cooperazione internazionale, che trovano fondamento nella Risoluzione n. 1816 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 2008. La NATO ha messo in campo l’Operation Ocean Shield, che ha pattugliato le acque del Corno d’Africa e del Golfo di Aden, fino allo stretto di Hormuz. La missione, iniziata nel 2008 e terminata nel 2016, aveva l’obiettivo di scoraggiare e di interrompere gli attacchi dei pirati attraverso la protezione delle navi civili e dei mercantili, riuscendo a incrementare il livello generale di sicurezza nella regione. Nella pratica, le navi commerciali che hanno transitato nell’area sono state monitorate e, in molti casi, scortate per garantire la loro navigazione in piena sicurezza.
In concomitanza con l’avviamento dell’Operation Shield, l’Unione europea ha dato vita all’Operazione EUNAVFOR Atalanta, lanciata nel dicembre 2008 nel quadro della Politica di Sicurezza e Difesa Comune (CSDP), decretata dal Consiglio (PESC n.2008/851), alla quale partecipano tuttora gli stati membri dell’UE. L’obiettivo dell’operazione, anche in questo caso, è di dissuadere, prevenire e reprimere militarmente gli atti di pirateria e di rapina a mano armata. Allo stesso tempo, si propone di assistere lo sviluppo della capacità di contrasto al fenomeno degli stati della regione che lo richiedano. L’operazione si concentra per lo più nei mari già solcati dalle forze della NATO e, più specificatamente, nelle acque somale, che paiono essere quelle in cui gli atti di pirateria sono più diffusi.

Nonostante la riduzione degli attacchi dei pirati ai mercantili, conformemente alle azioni intraprese sinora, il brigantaggio marittimo è ancora presente. Come riportava nel 2014 la European Union External Action, il braccio diplomatico della politica estera e di sicurezza dell’Unione, la preoccupazione è grande anche perché “gli equipaggi tenuti in ostaggio dai pirati, affrontano spesso un prolungato periodo di prigionia, per una media temporale di 5 mesi”. I costi della pirateria potrebbero acuirsi in caso di interruzione della catena di approvvigionamento delle merci e dell’ energia, qualora la comunità internazionale non si opponga in modo efficace alle attività dei pirati e le associazioni di lavoratori marittimi si rifiutino di navigare nelle zone infestate. Come riportato dal Parere del Comitato Economico e Sociale Europeo del gennaio 2013, nella dichiarazione congiunta su un partenariato per combattere la pirateria marittima nell’Oceano Indiano occidentale del 2012, l’Unione Europea e l’Organizzazione Marittima Internazionale hanno ribadito la loro determinazione ad aumentare la capacità di combattere la pirateria e a migliorare la governance marittima in quelle zone.
A tal riguardo, rivestono una grande importanza l’accordo di cooperazione regionale del 2006 sulla lotta alla pirateria e le rapine a mano armata contro le navi in Asia, detto ReCAAP, la conclusione da parte dell’UE nel 2009 di un accordo bilaterale con il Kenya per il trattamento dei pirati e, infine, il codice di condotta di Gibuti, adottato nel 2009. Quest’ultimo è diventato uno strumento chiave che consente agli stati dell’Africa orientale di formulare una reazione a livello regionale al problema della pirateria, tentando di integrare il lavoro svolto dall’UE.
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