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SPECIALE – Genere e rappresentanza: le istituzioni pubbliche e il settore privato

Natalie SclippaJasmina SaricmmbyNatalie Sclippa,Jasmina Saricand1 others
Novembre 9, 2020
in Speciale, Uncategorized
Reading Time: 15min read
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SPECIALE – Genere e rappresentanza: le istituzioni pubbliche e il settore privato

Di Tommaso Destefanis, Jasmina Saric e Natalie Sclippa

Dalla fine della seconda guerra mondiale, il tema della parità di genere e delle pari opportunità ha iniziato ad emergere in maniera sempre più spiccata in tutto il mondo. Molte sono state le battaglie, concettuali e concrete, che hanno portato le istituzioni di tutto il mondo a dover prendere atto di un tessuto sociale in perenne cambiamento. Il percorso per l’affermazione di diritti civili e politici per le donne di tutto il mondo è stato e rimane molto lungo.

Ad esempio, nell’Europa che si distingue in altri campi per la concretizzazione di libertà individuali e di uguaglianza, la possibilità per uomini e donne di godere di pari diritti appare, almeno nella teoria, scontata. Dagli anni ‘40 e ‘50 del secolo scorso, il corpus legis nazionale ed europeo ha cominciato a riconoscere come fondamentale l’emancipazione politica e personale della donna. Tuttavia, nonostante una legislazione all’avanguardia sul tema, la parità di genere, l’equità e il bilanciamento di ruoli sono risultati ancora lontani. 

All’interno delle istituzioni politiche europee, una maggiore consapevolezza femminile della propria autonomia di azione nella vita privata e in quella pubblica, condizionata spesso da pregiudizi e costrutti sociali, porta a voler riequilibrare, tramite un nuovo corpus legis dedicato, un panorama che all’oggi è a netto svantaggio del genere femminile e della comunità LGBTQI+.

Anche per quello che riguarda l’amministrazione di aziende private, il raggiungimento di un equo trattamento e di un bilanciato coinvolgimento è ancora lontano, nonostante negli ultimi anni siano state numerose le campagne e le iniziative a favore di una diversificazione di genere.

La rappresentanza delle donne nelle istituzioni politiche in Europa

Come sostenuto da UN Women, la partecipazione politica delle donne è un prerequisito fondamentale per la parità di genere e per una democrazia genuina. Secondo l’indice dello European Institute for Gender Equality (EIGE) pubblicato nel 2019, il punteggio europeo sulla gender equality politica è aumentato dal 2005 di 5.4 punti, attestandosi a 67.4 su 100. Segno che il gap tra uomini e donne nelle istituzioni persiste e rende più difficile la promozione di politiche a tutela della componente femminile.

Sebbene l’indice sopracitato proceda a ritmo lento, all’inizio del 2019 l’Europa (includendo sia i paesi dell’Unione sia gli altri stati del continente) si è collocata al di sopra della media mondiale in termini di partecipazione femminile alla leadership politica degli stati nazionali. Le prime ministre sono circa il 14.3%, rispetto al 7.3% mondiale, mentre i capi di Stato donna costituiscono il 21.4% rispetto alla media mondiale, che è del 6.6%.

Per quanto riguarda le istituzioni statali, il continente europeo presenta un quadro diviso in due aree: quella nord-occidentale, che tende a sviluppare delle democrazie paritarie (nonostante alcune eccezioni), e quella orientale, ancora indietro nel percorso che porta ad una bilanciata partecipazione femminile alla vita politica. Secondo i dati OCSE, su 31 capi di Governo, solo 7 sono donne: fra queste, troviamo la cancelliera Merkel e la neo-eletta prima ministra finlandese Sanna Marin. 

La prima ministra della Finlandia, Sanna Marin, e il suo governo. 2019.

La Finlandia presenta la percentuale più alta di donne al Governo (il 61%), seguita dalla Francia (56%) e dalla Svezia (54,5%). Le percentuali più basse, invece, sono riscontrate nell’area est-europea: l’esecutivo lituano ha la componente femminile più bassa (7%) e percentuali non molto differenti si riscontrano in Ungheria (15%) e in Romania (18%). 

Passando dai Governi ai Parlamenti nazionali, un report di UN Women intitolato Women in Politics: 2019 mostra una partecipazione femminile maggiore, anche se scostante. Il range varia dal 35-40%, tra cui si collocano l’Italia (36%) e la Spagna (41%), a valori al di sotto del 15%, di cui sono esempi l’Ungheria (13%) e Malta (12%).

Nelle istituzioni dell’Unione europea, invece, la presenza delle donne risulta essere ancora minoritaria. Nonostante il 2019 sia stato l’anno della guida ‘al femminile’ dell’Unione, con la nomina di Ursula Von der Leyen come presidente della Commissione e Christine Lagarde al vertice della BCE, la maggioranza numerica delle donne sembra assottigliarsi man mano che si sale ai ruoli apicali. Nel Parlamento europeo, infatti, si registra un 37% di parlamentari donne, che però si riduce al 31% nell’organo esecutivo della Commissione. Inoltre, se nelle ultime riunioni dell’ECOFIN si aveva un 11% di componente femminile, nel Consiglio degli Affari Esteri era solo un 3,6%.    

Cosa spiega la maggiore presenza delle donne nelle istituzioni di uno stato rispetto ad un altro?

Dal quadro generale mostrato, è interessante notare che nell’Unione vi siano notevoli diversità nel bilanciamento di genere all’interno degli organismi nazionali. Uno dei fattori che porta a queste differenze è la promozione o meno da parte di un dato paese di politiche specifiche volte ad agevolare la diversità e l’inclusività, come, ad esempio, le cosiddette ‘quote rosa’. Lo stato che ha registrato il maggiore aumento nell’UE rispetto alla quota di donne in Parlamento è la Francia: non a caso, è stato anche il primo, tra il 1999 e il 2000, ad adottare una legislazione a sostegno della parità di genere nelle cariche elettive, fissando una soglia minima del 50% e prevedendo sanzioni nel caso di inadempimenti. Una simile legislazione è stata adottata in Belgio nel 2002 e in Spagna nel 2007.  

Un altro genere di provvedimenti in questo senso è quello legato all’assistenza alla famiglia. In Norvegia, lo sviluppo di politiche efficaci di assistenza alle famiglie con bambini e di aiuto statale nei periodi di maternità e paternità ha contribuito all’aumento del numero delle donne nei consigli municipali locali. Una tendenza opposta si riscontra in paesi dove tali politiche non vengono messe in pratica e in cui, numericamente, si rileva un numero inferiore di donne al potere. Un esempio è l’Ungheria, che presenta le percentuali più basse in Europa e dove la “National Strategy for the Promotion of Gender Equality 2010-2021 Agenda” non è stata di fatto implementata dall’attuale Governo conservatore.

L’impatto della rappresentanza femminile sulla promozione di politiche a tutela delle donne

Se la gender equality è un obiettivo che sprona i paesi dell’Unione ad adottare leggi a favore della presenza femminile in politica, un altro traguardo è quello di ottenere, anche grazie all’affluenza femminile nelle istituzioni governative, un riorientamento dell’agenda politica verso un’uguaglianza di genere sostanziale e una tutela maggiore dei diritti delle donne. Eppure, in alcuni casi l’implementazione di tali politiche rimane deficitaria anche negli stati con una leadership più diversificata.    

Per quanto riguarda il diritto all’aborto, tutelato in buona parte d’Europa, resta significativo il caso della Polonia, uno dei paesi europei dove il gender gap in politica è ancora tristemente alto. La legge sull’aborto polacca è tra le più restrittive del continente: l’interruzione della gravidanza è permessa solo in caso di stupro, incesto, di rischio per la vita della madre e per gravi malformazioni del feto. Nel campo della lotta alle violenze domestiche, pur con un numero elevatissimo di donne al Governo, la Finlandia ancora non garantisce una tutela completa. Lo stato ha messo in atto il piano d’azione previsto dalla Convenzione di Istanbul per la lotta contro la violenza femminile, ma, secondo un rapporto del gruppo di esperti del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne (GREVIO), non si prevedono sanzioni appropriate per reati quali stupro, molestie sessuali e stalking. Lo stesso si rileva negli altri stati scandinavi, come la Svezia. Qui, il sistema welfaristico ha un approccio neutrale, ovvero non basato sulla questione di genere, nelle misure in campo lavorativo. Ne è esempio il congedo parentale, che prevede il numero minimo di 480 giorni in totale per entrambi i genitori. Se, da una parte, questo modello propone una visione simmetrica dei ruoli genitoriali nell’applicazione di determinate politiche, dall’altra non obbliga a un’equa ripartizione del periodo di congedo, con il rischio che di esso usufruiscano prevalentemente le neo-madri, a discapito della propria attività lavorativa.

Una leadership diversificata non corrisponde automaticamente all’attuazione di politiche sociali a favore delle donne, dunque. Da alcuni casi empirici, ad influire sono le intenzioni politiche delle leader, nonché il contesto etico-sociale in cui operano. Ad esempio, la cancelliera tedesca Angela Merkel potrebbe sicuramente costituire, per la sua fama, un’ispirazione per tante giovani donne volenterose di avere un ruolo nella vita politica. Tuttavia, la “donna più potente del mondo”, così definita dalla rivista Forbes, ha sempre rifiutato per sé la definizione di “femminista”, contribuendo alla valorizzazione delle donne ma non facendone il centro della sua agenda politica. Un dato significativo si riscontra durante i suoi mandati da cancelliera: il Bundestag non ha mai contato una percentuale superiore al 40% di parlamentari donne e, in particolare, dal 2017 si ha avuto un calo del 6% del loro numero.

Considerando invece il contesto extraeuropeo, si trovano vari esempi di successo di figure femminili in ambito politico. “L’uguaglianza di genere deve diventare una realtà vissuta” ha sostenuto Michelle Bachelet, ex presidente cilena, in carica dal 2005 al 2010. Una leader carismatica che, dopo aver promosso alcune riforme sulla parziale depenalizzazione dell’aborto e sulla regolarizzazione delle unioni civili, durante il suo mandato ha anche accettato l’incarico di direttrice della nuova gender entity delle Nazioni Unite, UN Women. La stessa via è stata intrapresa da Jacinda Ardern, prima ministra della Nuova Zelanda. Dopo aver dato alla luce la sua prima figlia durante il proprio mandato, dimostrando che qualsiasi premier donna ha la possibilità di essere allo stesso tempo madre, ha lottato per la depenalizzazione dell’aborto e per la concessione dell’interruzione di gravidanza fino a 20 settimane.  

Nonostante il considerevole aumento di leader donne nelle istituzioni politiche, si riscontra che la rappresentanza generale non è ancora onnicomprensiva nè a tutela di chi, storicamente e ingiustamente, è meno considerato o tutelato. Il raggiungimento di una parità effettiva non è evidente nemmeno in quegli stati dove il numero di donne al livello istituzionale è più alto.

Il settore privato: un quadro poco rassicurante 

“Nonostante progressi incoraggiante negli ultimi anni, la scarsa rappresentanza delle donne in consigli di amministrazione e in posizioni dirigenziali rimane una sfida importante per gli stati membri dell’UE. Questa scarsa rappresentanza significa che una potenziale risorsa di risorse umane altamente qualificate e necessarie rimane inesplorata”, indica un report del 2019 sulla parità di genere tra uomini e donne nell’UE della Commissione Europea.

La questione di genere e, più in generale, dell’inclusività e delle pari opportunità, negli ultimi 10 anni ha avuto un ruolo molto importante anche nell’amministrazione di aziende private. Buona parte di esse hanno visto il tessuto sociale in cui operano modificarsi in maniera esponenziale e, di conseguenza, hanno voluto adeguarsi a tali cambiamenti apportando delle significative modifiche nel loro modo di fare management. Tuttavia, nonostante alcuni passi avanti, esiste ancora un netto sbilanciamento tra uomini e donne, su scala globale, per quanto riguarda i ruoli senior ed executive in azienda.

I dati della International Labour Organization (ILO) nel report del 2019 sulla presenza delle donne nel mondo del lavoro sono molto chiari. In uno studio statistico sui CEO di aziende medio-grandi, i numeri raccolti raccontano una situazione nettamente a favore della componente maschile dei board, in cui, globalmente, solamente il 21,7% dei dirigenti d’azienda è donna. Analizzando questi ultimi dati per regione, si riscontra che nell’Africa subsahariana l’84,8% dei CEO sono uomini, in Europa e Asia centrale il 76%, nei Caraibi e nell’America latina il 70,3%, in Medio Oriente e Nord Africa l’89%. 

Politiche specifiche: “Diversity & Inclusion”

La questione di genere nelle aziende va collocata all’interno di un insieme di politiche aziendali che favoriscano l’integrazione e la tutela di tutti i dipendenti. Nell’arco degli ultimi 10 anni, infatti, sono state promosse nuove strategie manageriali che hanno portato allo sviluppo di un vero e proprio insieme di politiche specifiche chiamate “Diversity and Inclusion” (D&I).

Workshop dell’iniziativa #IamRemarkable, promossa da Google

L’obiettivo principale è quello di rendere il luogo di lavoro sempre più accogliente, adatto a chiunque e aperto alle diversità. In un’indagine condotta da Wise Growth e da Istud Business School e citata dalla Harvard Business Review, su un campione di 55 aziende italiane piccole, medie e grandi, il 95% del campione afferma che l’obiettivo principale di queste iniziative sia quello di migliorare il clima aziendale, l’84% sottolinea che sia fondamentale promuovere la diversità a tutti i livelli gerarchici e l’80% asserisce che attrarre e mantenere una forza lavoro plurale sia fondamentale per rimanere competitivi sul mercato.

“La gestione della diversità in azienda è divenuta una necessità imprescindibile in un mondo sempre più complesso, globalizzato, interconnesso” ha sostenuto Marella Caramazza, direttore generale di Istud Business School. 

I campi di attuazione delle politiche D&I sono molteplici e ogni impresa organizza e promuove in maniera autonoma le attività di inclusione. Nelle aziende prese a campione dall’indagine sopracitata, le pratiche più diffuse sono legate all’area flessibilità e smart working, seguita dai supporti alla genitorialità, dall’empowerment aziendale e dal mentoring. Al 75%, queste politiche vengono promosse attraverso eventi interni, newsletter e piattaforme intranet. Inoltre, esse si concentrano prevalentemente su tre macro-temi: la questione generazionale, espressa tramite cambiamenti per la valorizzazione dei giovani e attività di mentoring e di scambio intergenerazionale; il work-life balance, promuovendo lo smart working e garantendo un supporto alla genitorialità; la questione di genere, sostenendo le carriere femminili e eliminando il gender pay gap.

L’incidenza delle politiche per l’inclusione sulla reputazione aziendale e sulla crescita degli utili gestionali.

Al di là del valore etico di queste policy aziendali, il report dell’ILO mostra come la seria applicazione di queste politiche di inclusione abbia avuto un importante impatto sulla produttività. Lo studio, infatti, si concentra su 13000 aziende operanti in 70 paesi del mondo e viene riscontrato che, se l’organico delle imprese presenta un buon livello di parità di genere e di inclusione, queste ultime risultano molto più competitive e ‘attraenti’. Oltre il 70% dei dipendenti intervistati attribuisce alle politiche D&I la crescita degli utili gestionali dal 5% al 20%.

Un report della Harvard Business Review sostiene che gli investitori spesso vedano in una forza lavoro eterogenea una gestione competente. Vengono apprezzate le imprese che utilizzano pratiche come, ad esempio, l’inclusione di diversi gruppi nelle assunzioni, e penalizzate quelle che escludono e che infrangono queste logiche. Addirittura, è stato notato che alcune imprese hanno avuto un netto rialzo sul mercato azionario subito dopo aver vinto dei premi relativi all’inclusività e alla promozione della diversità in azienda. 

L’approccio al lavoro in un’ottica di genere

Secondo un’analisi condotta da Future Manager, a 12 mesi dal conseguimento della laurea magistrale, in Italia trova il primo lavoro il 44% dei laureati uomini contro il 37% delle donne. Quest’ultimo è un indice apparentemente paradossale, considerato che, stando ai dati del report ILO, negli ultimi cinque anni il numero di laureate donne ha superato il numero di laureati uomini del 4% in media. La forbice di questo scompenso non accenna a ridursi nemmeno per quello che riguarda la stipulazione di contratti a tempo indeterminato, dove si registra una percentuale del 16% a favore del genere maschile contro il 9% del genere femminile. 

Nonostante le numerose politiche aziendali e pubbliche, in tutto il mondo restano presenti delle enormi differenze di trattamento tra uomini e donne nel mondo del lavoro. Il tristemente noto gender pay gap, ovvero la differenza di stipendio tra uomini e donne a parità di mansioni e di ruolo, è una realtà con cui molte donne devono convivere. In Italia il divario salariale di genere era in media del 5,5% nel 2017. Altro tema fondamentale su cui è doveroso continuare a intervenire è quello della genitorialità, come potenziale ostacolo sia al momento dell’assunzione sia per l’avanzamento di carriera. 

Gli obiettivi futuri

La realizzazione di una gender equality effettiva è stata annoverata tra i Sustainable Development Goals da raggiungere entro il 2030. Il processo per arrivare al raggiungimento di tale uguaglianza è stato indicato dalla Commissione Europea, che ha presentato una nuova strategia per l’ottenimento della parità di genere da mettere in atto nei prossimi 5 anni allo scopo di concretizzare una “Unione dell’uguaglianza”. Quest’ultima condizione rientra tra le sei priorità di Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione, secondo quanto indicato dall’agenda politica. In questa prospettiva, nell’arco degli ultimi dieci anni molti sono stati i passi avanti fatti sia nelle sedi politico-istituzionali sia nei grandi C.D.A. aziendali sulla parità di diritti, inclusione e tutela. 

Nonostante la gender equality abbia assunto un ruolo così importante nel dibattito pubblico e nelle numerose agende politiche europee e internazionali, i continui esempi di esclusione e discriminazione ricordano quanto ancora si debba lavorare per l’ottenimento di pari possibilità e opportunità. Il diritto al trattamento paritario di ogni individuo dovrebbe infatti essere applicato in ogni campo: questo recita l’art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e, più nello specifico, la Convenzione per i diritti politici della donna, adottata nel 1954. 

Questi diritti fondamentali non possono più passare in secondo piano nell’agenda politica internazionale e non possono più costituire una tra le tante opzioni di management aziendale. Essi infatti sono la concretizzazione nell’ottica di genere di principi inalienabili come l’uguaglianza e la solidarietà tra gli uomini e le donne. Pertanto, è necessario che vengano puntualmente sostenuti e applicati al fine di concorrere quotidianamente alla formazione di una cultura dell’inclusione e delle pari opportunità.

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