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La protezione della maternità, tra diritto e pratica

Mattia EliabyMattia Elia
Giugno 10, 2020
in Diritto Internazionale ed Europeo, Uncategorized
Reading Time: 6min read
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Risale al 1919 la prima Convenzione sulla Protezione della Maternità adottata dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), nella quale si garantiva il diritto ad un congedo remunerato. Si tratta del primo standard internazionale riguardante il settore lavorativo, che assume un valore ancora maggiore se viene analizzato sullo sfondo del periodo delle proteste femministe che rivendicavano il suffragio universale nei confronti delle donne. 

La Convenzione del 1919 venne modificata nel 1952 e nel 2000, al fine di ampliarne lo scopo di applicazione soprattutto per quanto riguarda la definizione di donna e di bambino, per i quali si applicano le disposizioni ivi contenute. Nella versione del 1919 non potevano essere fonte di discriminazione l’età, la nazionalità e lo status di sposata o nubile. Nel 1952 vennero aggiunti due elementi: il credo e la razza. Infine, nella versione del 2000 il principio di non discriminazione assunse una valenza universale, poichè, come stabilisce l’articolo 2, la definizione di donna dev’essere resa “senza alcun tipo di discriminazione”. Parallelamente, attraverso le tre modificazioni furono ampliati i settori occupazionali ai quali applicare le garanzie concesse dalle Convenzioni.

Dalla prima Convenzione del 1919, i passi in avanti sono stati evidenti. Tutti gli Stati che hanno ratificato almeno una delle Convenzioni  hanno poi modificato la propria normativa interna in conformità con le stesse. Gli articoli 3, 4, e 6 della Convenzione richiedono misure per la protezione della salute della donna in gravidanza, stabilendo un periodo di congedo per maternità di almeno quattordici settimane, nonché prestazioni in denaro durante queste stesse, al fine di provvedere a un adeguato sostentamento economico. Tuttavia, nel 2014 l’ILO ha pubblicato un rapporto, Maternity and Paternity at Work: Law and Practice Across the World, nel quale si evidenzia che almeno 800 milioni di lavoratrici nel mondo non beneficiano di un’adeguata protezione in tema di maternità e che circa l’80% di esse si trovano in Africa ed Asia.

Non di meno, l’implementazione delle citate Convenzioni e la regolamentazione dell’intersezione della vita famigliare con quella lavorativa ha coinvolto anche il quadro giuridico europeo. Il Consiglio d’Europa (CdE) adottò nel 1961 la Carta Sociale Europea, poi emendata nel 1996. Questa Convenzione considera necessario concedere un periodo di congedo parentale al fine di assicurare l’effettivo esercizio del diritto delle donne di lavorare, nonché di considerare illegittimo il licenziamento nel medesimo tempo. L’articolo 27 stabilisce che le responsabilità familiari, cioè quelle richieste di permesso volte a soddisfare le necessità della famiglia, non possono costituire un valido motivo per la cessazione del rapporto di lavoro. In questi riguardi, al fine di evitare tali situazioni, gli stati contraenti devono impegnarsi a “sviluppare o promuovere servizi pubblici o privati, in particolare i nidi d’infanzia ed altre forme di sorveglianza dei bambini”

Parallelamente, nel corso degli anni ‘90, la Comunità Europea adottò la Raccomandazione 92/241/CEE, nella quale si esortava “una maggiore partecipazione degli uomini al fine di assicurare una più equa ripartizione delle responsabilità parentali tra uomini e donne e permettere a queste ultime una partecipazione più efficace al mercato del lavoro.” Successivamente, il Consiglio dell’Unione Europea intervenne con due direttive: la prima (Direttiva 92/85/CEE) volta a promuovere e a migliorare la sicurezza e la salute sul lavoro di donne gestanti e la seconda (96/34/CE con le successive modificazioni) concernente il congedo parentale, secondo cui tale congedo non può essere inferiore alle quattordici settimane, soglia introdotta dalle Convenzioni dell’ILO. In questo contesto, assume particolare rilevanza la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea siglata a Nizza nel 2000, che all’articolo 33 prevede che “è garantita la protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale” e che “al fine di poter conciliare vita familiare e vita professionale, ogni individuo ha il diritto di essere tutelato contro il licenziamento per un motivo legato alla maternità e il diritto a un congedo di maternità retribuito e a un congedo parentale dopo la nascita o l’adozione di un figlio”. 

Tuttavia, i dati raccolti negli ultimi anni non sono confortanti. Con riferimento agli Stati Uniti, un’inchiesta del New York Times ha messo in luce come negli Stati Uniti la gravidanza e la conseguente maternità fossero uno dei fattori di discriminazione più diffusi, sia nel settore privato sia nel settore pubblico. Nell’inchiesta, si legge che nel settembre 2018 la Corte d’Appello Federale dell’Alabama ha condannato un dipartimento di polizia per “pregnancy discrimination” perché, alla richiesta di una donna in servizio durante la gravidanza di adattare il giubbotto antiproiettile alla sua condizione,  un superiore ne fornì uno così largo che di fatto lasciava parti del busto non protette. Inoltre, viene riportato che decine di migliaia di donne hanno accusato compagnie private della medesima discriminazione. Tra di esse, si annoverano Walmart, AT&T, 21st Century Fox, e, paradossalmente, lo studio legale Morrison & Foerster. 

Sempre secondo il NYT, la Equal Employment Opportunity Commission, agenzia statunitense attiva nel campo della discriminazione sul posto di lavoro, nel 2018 ha ricevuto 3.184 reclami, circa il doppio di quanti se ne registravano durante i primi anni ‘90, quando l’agenzia iniziò a tenere registrazioni elettroniche. Inoltre, si legge che la nascita del primo figlio corrisponde ad un punto critico nella vita professionale delle donne negli Stati Uniti, soprattutto relativamente all’incremento del divario salariale con gli uomini, che ammonta a circa 25.000 dollari. Ugualmente, la Equality and Human Right Commission, agenzia britannica di monitoraggio sul rispetto dei diritti umani, nel 2018 ha pubblicato un report nel quale si evidenzia la medesima preoccupazione. Per quanto riguarda l’Italia, sebbene i dati siano meno recenti, una ricerca dell’Osservatorio Diritti attesta che tra il 2013 e il 2015 350 mila donne sono state licenziate o costrette a dimettersi “per via della maternità o per richieste che tendevano ad armonizzare il lavoro con le esigenze famigliari”. 

Sul tema della protezione della maternità, il quadro normativo sovranazionale offre quindi una regolamentazione soddisfacente. Si articola su più livelli e lo si può considerare un corpus consolidato, dal momento che le istituzioni internazionali lo implementano ormai da decenni. Ciò nonostante, nella pratica, i risultati sembrano ancora piuttosto deludenti. L’attenzione portata a questa discrepanza, tuttavia, può essere letta anche in chiave positiva, come sintomo di un cambiamento nella consapevolezza pubblica verso i diritti connessi al periodo della maternità, e quindi come un primo tentativo di portare le norme in azione.

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Tags: DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO
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