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Il Vanuatu resta l’ultimo paese per numero di donne in Parlamento

mmbyVirginia Orsili
Giugno 10, 2020
in Sud e Sud-Est Asiatico, Uncategorized
Reading Time: 9min read
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Lo scorso 19 marzo, i cittadini della Repubblica di Vanuatu si sono recati alle urne per eleggere i 52 nuovi membri del Parlamento nazionale. Nonostante venga tradizionalmente considerato uno dei più progressisti tra le isole meridionali dell’Oceano Pacifico, nella classifica mondiale stilata dalla Inter-Parliamentary Union il paese è all’ultimo posto per numero di donne in Parlamento. Secondo i risultati pubblicati dalla Commissione Elettorale, la tendenza rimane stabile: nessuna delle candidate è stata eletta. 

Dopo l’indipendenza dal Regno Unito e dalla Francia, avvenuta nel 1980, sono state solo cinque le donne che hanno potuto fare parte dell’assemblea legislativa. L’ultima deputata è stata eletta nel 2008: da quell’anno, nessuna ha più avuto accesso. Fato avverso o fenomeno sociale? La seconda ipotesi è senza dubbio quella più fondata, soprattutto se si pensa che il paese condivide questo triste primato con altre due nazioni situate nella stessa zona geografica: la Papua Nuova Guinea e gli Stati Federati della Micronesia. 

Eppure, importanti passi sono stati fatti per facilitare l’accesso di donne in Parlamento. Negli ultimi anni si è assistito ad un vero e proprio prisma di azioni volte a promuovere e facilitare la candidatura e l’elezione di donne in vista delle elezioni del 2020. Tra queste, spicca la creazione del primo partito politico vanuatense guidato da donne, il Leleon Vanua Democratic Party, avvenuta nel 2018. Nonostante la principale aspirazione della nuova formazione politica fosse proprio quella di assistere le potenziali candidate, ad un mese dall’inizio della competizione è stata tuttavia resa pubblica la decisione di non prenderne parte, come riportato dal Daily Post. Il retaggio sociale e le norme politiche costituiscono una seria sfida per il Leleon Vanua Democratic Party e per il genere femminile in generale. 

Ma l’ostacolo che lo ha escluso in ultima istanza dalla competizione politica è di tipo materiale. Come scrive Joshua McDonald per The Diplomat, il partito non è infatti riuscito ad ottenere i fondi necessari ad organizzare una campagna elettorale efficace, necessaria nel tentativo di opporsi ai partiti tradizionali, guidati da uomini, con capitale economico e sociale ben più ingente. Le 17 donne che hanno scelto di candidarsi, contro un totale di 240 uomini, hanno dovuto quindi decidere se correre come indipendenti o affiliarsi a un partito politico. 

Tra queste c’è Litiana Kalsrap, una delle due donne candidate con lo Shepherds Alliance Party e la più giovane aspirante alla carica di deputata. La giovane politica ha scelto il suo capitale sociale, costituito principalmente dalla rete di rapporti costruita all’interno della sua comunità, come asso da giocare. Capace di fondere valori tradizionali a connotazioni dal gusto più millennial, la sua figura spicca tra le altre in quanto attivista ambientale e leader dei giovani. Sono proprio questi ultimi, come dichiarato dal Guardian, che hanno sostenuto la sua candidatura. Con poca sorpresa, il dato anagrafico è parte centrale nel tentativo di delegittimazione mosso da altri colleghi uomini. Seppur con un limitato sostegno economico, Kalsrap ha potuto comunque vantare l’endorsement di un partito, che è proprio quello che è mancato ad altre candidate. Come, ad esempio, Marie Leitousei Kalkoa, che, come sottolinea The Diplomat, è stata costretta a correre come indipendente. 

Da questo dato emerge che l’esclusione delle donne dalla cosa pubblica è multipartisan. Come riportato da ONE Papua Nuova Guinea, questa chiave di lettura viene confermata dalle parole di Anne Pakoa, un’altra delle candidate indipendenti, che sottolinea che “per essere ammesse all’interno di partiti dominati da uomini, le candidate sono costrette a conformarsi ad alcuni folli criteri stabiliti dagli uomini”. D’altro canto, è vero che il genere è un fattore ancor più determinante dell’ideologia, sia nel gioco delle alleanze, sia in quello della scelta elettorale. Ricordando la sua esperienza come consigliere comunale di Port Vila, favorita dalla decisione di fare ricorso a un sistema di quote riservate per le candidate, Pakoa aveva dichiarato: “Facevamo parte di gruppi politici diversi, ma ci siamo connesse in quanto donne innanzitutto. È stato chiaro a tutte noi che eravamo lì per cambiare il sistema e abbiamo mostrato solidarietà l’una verso l’altra. Gli uomini credono davvero che l’esistenza di posti bloccati (dal sistema di quote riservate, ndr) sia una scorciatoia, mentre non capivano che noi eravamo lì per far cambiare mentalità rispetto al ruolo delle donne nel processo decisionale”.

Questo scenario non deve però suggerire l’esistenza di una netta contrapposizione tra donne che combattono per l’affermazione dei loro diritti e uomini che ne ostacolano il processo. Uno dei principali scogli per la battaglia femminista risiede infatti nelle divisioni interne, create da quelle donne – che ricoprono anche cariche importanti – che non condividono le concrete aspirazioni o, anche quando un obiettivo comune viene identificato, non si trovano d’accordo sui mezzi e i processi da mettere in atto per raggiungerlo. Secondo Jenny Ligo, una figura importante nel panorama politico nazionale, tempo e risorse sono state sprecate per consentire alle donne di accedere al mondo politico. In passato, l’attivista politica si era scagliata contro la creazione del Leleon Vanua Democratic Party: dal momento che, secondo il Kastom (il costume locale), il ruolo delle donne di Vanuatu è quello di occuparsi della casa, le figure femminili che si affacciano al mondo politico non avrebbero ancora le competenze necessarie a dirigere un partito. Esse dovrebbero quindi essere affiancate da figure maschili con più esperienza e impegnarsi “nell’ottenere l’approvazione del partito e degli uomini politici”. Nonostante il Leleon Party sia nato per le donne, Ligo ricorda che non tutte le donne si riconoscono nella visione del problema proposta dal partito e quindi nelle soluzioni da mettere in atto. Come riportato dal Daily Post, secondo Ligo, “alcune di voi potranno non essere d’accordo con quanto sto per dire, ma Hilda Lini, Isabel Donald, Leinavo e Eta Rory (quattro delle cinque donne che hanno avuto accesso al Parlamento nell’intera storia del Paese, ndr) sono esempi viventi di donne elette in parlamento perché avevano accanto degli uomini”.

Insieme ad altre figure femminili di rilievo a livello nazionale, l’attivista Ligo aveva già preso le distanze dal tentativo di implementare un sistema di quote a livello nazionale. Come spiegato dalla ricercatrice Kerryn Baker, un emendamento del Municipalities Act del 2013 ha riservato cinque seggi del consiglio municipale di Port Vila e quattro di quello di Luganville a candidate donne. Visto il successo di tale misura a livello locale, un’azione concertata di associazioni politiche e sociali si è mossa per tentare di promuovere questo strumento anche a livello provinciale e nazionale. 

Lo sforzo più rilevante e recente è stato l’invio di una petizione al Parlamento vanuatense, firmata da 328 membri del Vanuatu Civil Society Influencing Network e dello Steering Group nonché dai leader delle comunità locali, affinché il 50% dei seggi parlamentari fosse riservato alle candidate a partire dalle elezioni del 2020. Una significativa battuta di arresto per l’attuazione di tale obiettivo è stata proprio l’accusa di ingerenza mossa da diverse figure dello scenario politico nazionale nei confronti di Oxfam, una delle associazioni che ha appoggiato la proposta. 

Lo stato attuale delle cose sembra essere in netto contrasto con gli impegni presi dal Vanuatu a livello internazionale. Uno dei passi più importanti sotto questo punto di vista è stata la firma della “Convenzione delle Nazioni Unite per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne” (CEDAW), avvenuta nel 1995. Se la cornice internazionale rappresenta un punto di forza, in quanto principale giustificazione teorica e forza motrice, l’appoggio di alleati esteri viene spesso stigmatizzato come passiva apertura all’ingerenza straniera, come dimostrato dal caso di Oxfam. L’antropologa Margaret Jolly sottolinea infatti il sistematico verificarsi di “un processo politico per il quale il fatto di avere appoggio da alleati internazionali finisce per allontanare proprio quegli uomini che, a livello locale, si sta cercando di influenzare e di far cambiare”. 

La Commissione delle Nazioni Unite incaricata di monitorare la situazione del Vanuatu in merito all’implementazione della CEDAW ha terminato la propria indagine nel 2016, pubblicando un rapporto sui principali punti d’ombra nel paese. Qui si evidenzia la necessità di consentire alle donne di accedere a posti di potere e di rappresentare quindi interessi fino ad ora rimasti invisibili. Il ricorso a strumenti specifici come “quote; trattamenti preferenziali; sensibilizzazione e programmi di supporto per donne; selezioni,  assunzioni e promozioni mirate” risulta uno dei mezzi fondamentali per raggiungere gli scopi preposti. Tale sviluppo non può che avvenire attraverso l’intervento congiunto e coordinato di attori diversi sia sul piano orizzontale – partecipazione di attori locali, regionali e nazionali – sia su quello verticale – forze governative, associazioni ONG, membri della società civile. 

Purtroppo, l’esito delle ultime elezioni non lascia ben sperare. Tuttavia, esso appare come un dato importante nella comprensione del processo verso la parità di genere nella rappresentanza politica. La strada che conduce a tale obiettivo non deve essere considerata un percorso lineare e progressivo, bensì una concatenazione di tappe in cui il verificarsi della successiva non dà alcuna garanzia sul mantenimento della precedente. La sfida principale risiede quindi nell’abilità di sapersi indirizzarsi verso le conquiste future senza compromettere quelle già ottenute. 

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