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La crisi dello Stato di diritto in Ungheria ed il diritto comunitario

Nicola OrtubyNicola Ortu
Giugno 10, 2020
in Diritto Internazionale ed Europeo, Uncategorized
Reading Time: 6min read
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Il 30 marzo 2020, il Parlamento ungherese ha accettato la richiesta del governo Orban di istituire uno stato d’urgenza di durata indeterminata. La misura è volta ad autorizzare l’esecutivo a governare tramite decreto durante la crisi sanitaria dovuta al COVID-19. Se la norma parrebbe analoga a quelle attuate in altri stati europei, quanto approvato a Budapest sembra andare oltre i limiti della legislazione d’emergenza. Per questo, in una nota congiunta, 13 paesi europei hanno criticato l’azione ungherese, affermando che le misure derogatorie “dovrebbero essere limitate a quanto è strettamente indispensabile, dovrebbero essere di natura temporanea e commisurata”. Fra i poteri riconosciuti al Governo, si annoverano quello di prorogare lo stato d’emergenza senza l’avallo del Parlamento, di sospendere alcune leggi tramite decreti e di circoscrivere la libertà di stampa.

Le opposizioni hanno denunciato lo sfruttamento dell’emergenza sanitaria per dare un’accelerazione alle politiche illiberali del Governo. In effetti, già dal settembre 2018, l’Ungheria è oggetto di una procedura ex. Art. 7 del Trattato sull’Unione Europea (TUE), invocata dal Parlamento europeo. L’Art. 7 TUE è il meccanismo sanzionatorio previsto dal diritto dell’Unione Europea per le violazioni dei valori su cui si fonda l’Unione, sanciti all’Art. 2 dello stesso trattato. Lo stallo a cui si assiste nell’attuazione concreta dell’Art. 7 TUE è un segno tangibile della difficoltà di azionare tali meccanismi di tutela.

Il suo funzionamento è infatti articolato in due fasi. La prima è volta a constatare l’esistenza di un “evidente rischio di violazione grave” dei valori dell’Unione, quali il “rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani”. Sono legittimati ad azionare tale procedura la Commissione, il Parlamento europeo, o 1/3 degli Stati Membri. L’iter procedurale è tuttavia nelle mani del Consiglio, che delibera a maggioranza dei 4/5 sull’esistenza del suddetto rischio, previa approvazione del PE. La procedura è ulteriormente appesantita da una fase precontenziosa, in cui “il Consiglio ascolta lo Stato Membro in questione e può rivolgergli raccomandazioni”. Solo se, dopo una dichiarazione di rischio grave, si assiste al protrarsi delle violazioni dell’Art. 2 TUE si può procedere all’accertamento dell’ “esistenza di una violazione grave e persistente”, permanendo l’obbligo del Consiglio di “verificare regolarmente se i motivi che hanno condotto a tale constatazione rimangono validi”. La proposta, in questo caso, può giungere da una platea più circoscritta, che non comprende il Parlamento europeo. Quest’ultimo sarà solo tenuto a dare il suo assenso all’azione introdotta da almeno 1/3 degli Stati membri o dalla Commissione. Il ruolo del Consiglio è anche qui preponderante: è ad esso delegato il compito di decidere, all’unanimità, dell’esistenza di una violazione grave e persistente, in una votazione alla quale lo Stato in questione non prende parte. 

Dunque, solo se la constatazione di “esistenza di violazione grave e persistente” ha avuto luogo le limitazioni dei diritti derivanti dallo status di membro dell’Unione sono azionabili. Anche in questo caso, sarà il Consiglio a votare, a maggioranza qualificata, per la sospensione dei diritti di voto del rappresentante del governo di tale Stato membro, che continua tuttavia ad essere vincolato agli obblighi derivanti dai trattati. È evidente che la procedura resta incentrata sull’azione degli Stati membri, i quali godono, nel constatare l’esistenza di una violazione grave, di un vero e proprio diritto di veto. Ora, la procedura attualmente in corso nei confronti dell’Ungheria non è diretta contro le misure adottate in ambito di contrasto al COVID-19, ma la legittimità di queste ultime si inserisce in un dibattito più ampio sulla risposta alle crescenti violazioni dello stato di diritto negli Stati membri.

Se lo stallo dell’Art. 7 è in sostanza riconducibile alla natura eminentemente intergovernativa della procedura – ovvero, i Governi dei singoli Stati membri hanno più peso nella decisione rispetto ad organi comunitari come il Parlamento europeo – vediamo ora quali alternative possono attuarsi per la sanzione di uno Stato membro che non rispetti i valori dell’Unione.

Un’opzione da alcuni paventata è la possibilità di espellere dall’Unione lo Stato membro responsabile di tali violazioni. Tuttavia, i trattati dell’Unione non prevedono alcuna norma sull’espulsione di uno Stato membro per violazione degli obblighi pattizi, nè sembra possibile ricavare una tale possibilità dal diritto internazionale generale. Infatti, secondo una costante giurisprudenza, è ormai certo che “i Trattati comunitari hanno instaurato un ordinamento giuridico di nuovo genere”, distinto da quello internazionale. Una caratteristica fondamentale di tale sistema è l’accentramento della funzione di risoluzione delle controversie. Questo impone agli Stati membri di “non sottoporre una controversia relativa all’interpretazione o all’applicazione dei trattati a un modo di composizione diverso da quelli previsti dal trattato stesso”. Si può dedurre implicitamente da tale norma che le controversie che hanno coinvolto l’Ungheria vadano ricondotte a tale sistema. Il TUE pare dunque orientato verso un approccio cooperativo, piuttosto che punitivo, alle violazioni degli obblighi sanciti. Scopo di tale architettura, come l’Art. 7 TUE testimonia, non è punire i responsabili delle violazioni, quanto indurli al rispetto delle norme, anche tramite sanzioni. Tuttavia è innegabile che, essendo queste sanzioni inserite in un sistema incentrato sulla preminenza del Consiglio, ad oggi il diritto dell’Unione si trovi quantomeno con le ‘polveri bagnate’.

In conclusione, le sanzioni indirizzate agli Stati responsabili di violazioni costituiscono un mezzo per spingerli ad ottemperare alle disposizioni del trattato, e non – come vorrebbe invece l’espulsione – per derogare ad esse. Sembra però che, in assenza di un consenso unanime fra gli Stati, l’Unione si trovi al momento in un vicolo cieco e che nuovi mezzi si rendano necessari per la protezione dello Stato di diritto nel suo territorio, poiché allo scrutinio previsto in materia per gli Stati candidati non corrisponde un adeguato sistema di controllo per gli Stati membri.

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Tags: DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO
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