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Come la differenza retributiva di genere influisce negativamente sulle nostre economie

mmbyRosalia Mazza
Giugno 10, 2020
in Economia e Finanza, Uncategorized
Reading Time: 6min read
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Diminuire la differenza retributiva tra uomini e donne e incrementare la parità di genere nelle istituzioni e nel settore privato sono stati gli obiettivi di varie politiche a livello nazionale ed europeo, come ad esempio, la “Strategia sulla Parità di Genere” adottata nel 2018 dal Consiglio d’Europa. “Garantire pari opportunità nel mercato del lavoro significa combattere ogni forma di discriminazione basata sul genere” sostiene sul suo sito il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, a dimostrazione dell’importanza del tema. Tuttavia, discriminazioni di questo tipo sono ancora attuali e, anzi, il divario salariale, cioè la differenza di salario tra uomo e donna a parità di mansione e di ore lavorate, non sembra diminuire.

Secondo quanto riportato dalla International Labour Organization (ILO) nel Global Wage Report 2018/2019, il divario retributivo di genere “resta inaccettabilmente alto”. Non solo nel 2017 si è registrata la crescita retributiva globale più bassa dal 2008, ma si evidenzia anche che le donne guadagnano in media il 20% in meno rispetto agli uomini. Secondo Guy Ryder, direttore generale dell’ILO, “il divario retributivo di genere rappresenta una delle più grandi manifestazioni di ingiustizia sociale dei giorni nostri”.

Tale divario risulta maggiore nei paesi più ricchi. Fattore cruciale sarebbe la maternità: nonostante il livello di istruzione sia tendenzialmente più alto tra le donne e anche laddove le posizioni ricoperte da uomo e donna siano le stesse, le donne con figli tendono a guadagnare meno delle donne che non ne hanno. Una differenza nella differenza insomma, dal momento che il divario retributivo di genere persiste anche in assenza di casi di maternità. 

Nel nostro paese il gap è più ampio nel settore privato che nelle istituzioni. Secondo i dati dell’Istat, considerando il quadro generale dal 2008 al 2018, la percentuale di dirigenti donne è aumentata di 5 punti percentuali fino a raggiungere il 32%. Se invece si considera solo il settore privato la percentuale resta ferma al 15%. L’Italia, inoltre, si piazza al 14º posto in Europa nel Gender Equality Index 2019, rapporto realizzato dall’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere. Ben 4,4 punti al di sotto della media europea. 

Ma cosa comporta questo per l’economia? Nel 2018 la Banca Mondiale ha pubblicato il rapporto “The Cost of Gender Inequality” con lo scopo di misurare la perdita economica globale dovuta al gap salariale tra uomini e donne. L’approccio utilizzato per calcolare tale perdita non si basa sul PIL dei diversi paesi, ma sul “wealth approach”. Tale metodo analizza le perdite in capitale umano attraverso una stima dei mancati guadagni, nel corso della vita di una persona, dovuti alla diseguaglianza retributiva. In questo modo, “l’human capital wealth si definisce come il valore attuale dei futuri guadagni della forza lavoro di oggi, considerando tutti gli individui che hanno almeno 15 anni”. Esso registra una potenziale perdita economica globale dovuta alla disuguaglianza retributiva pari a circa 160 trilioni di dollari.

Ingenti perdite economiche non si registrano solo nei casi in cui il gap salariale è elevato, ma anche nei casi in cui è forte la disparità tra presenza maschile e presenza femminile. Secondo McKinsey & Company, multinazionale di consulenza manageriale, le società con alti livelli di parità di genere nei quadri dirigenziali hanno il 21% di possibilità in più di ottenere profitti maggiori rispetto alle società con scarsa presenza femminile. Una conclusione simile è stata raggiunta dal Peterson Institute for International Economics, think tank indipendente specializzato in economia internazionale: secondo uno studio, il raggiungimento di una percentuale di leadership femminile pari al 30% si associa a un aumento dei profitti del 15%. Anche la Rosenberg Equities, società di investimenti, sottolinea come le società statunitensi ad elevata parità di genere quotate in borsa non solo raggiungano maggiori profitti, ma siano anche più stabili.

Si tratta dunque di una questione problematica alla quale si cerca di porre rimedio. Secondo una relazione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL), riportata in un articolo del Corriere della Sera, i nuovi strumenti dovrebbero essere interpretati, più che come misure di genere, come un rafforzamento delle politiche di welfare familiare: se venissero facilitate la cooperazione e la condivisione dei compiti familiari, le donne potrebbero accedere con maggiore facilità al mondo del lavoro e sviluppare le proprie carriere.

L’Italia ha già fatto un passo in avanti nel febbraio 2020. A seguito della riunione sulla parità salariale svoltasi a Berlino il 18 e il 19 febbraio, il nostro paese è entrato a far parte della Equal Pay International Coalition, un’iniziativa volta all’eliminazione del gap salariale, anche in accordo con l’Obiettivo 5 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, relativo alla parità di genere e all’emancipazione femminile. L’EPIC si propone, tra le altre cose, di promuovere la ratifica universale e l’effettiva operatività della Convenzione n.100 dell’ILO, convenzione sulla parità di remunerazione. Tra gli altri suoi obiettivi, punta a migliorare la legislazione nazionale sulla parità di retribuzione, monitorare statisticamente le tendenze sul gap retributivo e sostenere i governi, le imprese e i sindacati affinché possano effettivamente raggiungere l’obiettivo della parità retributiva.

Un passo in avanti dunque, sebbene a giudicare dal trend dei decenni passati non si possa essere certi di averne effettuato uno finalmente decisivo.

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Tags: ECONOMIA
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