
In queste settimane di forzata quarantena per limitare la diffusione del Covid-19, le potenziali conseguenze che il virus potrà avere sul futuro dell’economia globale sono innumerevoli. Tuttavia, se in molti casi gli esperti si stanno ovviamente limitando a previsioni, suggestioni e ipotetici scenari più o meno probabili, c’è un mercato che già da ora sta notevolmente patendo il colpo, quello del petrolio.
Il prezzo dell’oro nero, già diminuito di un terzo dall’inizio dell’anno, nella giornata di lunedì 9 marzo ha fatto registrare una vertiginosa caduta. I picchi di ribasso del 30% hanno innescato violente reazioni a catena su tutti i mercati finanziari. Per rendere l’idea del crollo, il petrolio di riferimento europeo, il Brent, che generalmente ha un prezzo medio di $60 al barile, è arrivato a essere scambiato a $31 al barile. Allo stesso modo il greggio di riferimento statunitense, il Wti, che generalmente ha un prezzo medio di poco inferiore al Brent, ha stabilito un minimo di $27,34 al barile.
Per capire le ragioni di questo tracollo, però, bisogna fare un passo indietro. Nel 2019 il 75% della domanda globale di petrolio è pervenuta da un solo paese, la Cina. Con l’espansione del virus e la conseguente paralisi dell’economia cinese, il mercato del greggio ha iniziato a vacillare, entrando in recessione già nel primo trimestre del 2020.
Non a caso, due fra le più grandi agenzie energetiche al mondo, Rystad Energy e l’Energy International Agency (AIE), hanno previsto per il 2020 un crollo della domanda di petrolio compresa fra il 25% e il 30%, ossia uno scenario che sarebbe il quarto peggiore degli ultimi 40 anni. Infatti, per ritrovare una riduzione della domanda della stessa misura, bisogna risalire alla Guerra del Golfo del 1991, dal momento che una tale flessione non si erano registrata nemmeno dopo l’attacco alle Torri gemelle del 2001 o la crisi economica globale del 2008.
Con i prezzi attuali, secondo quanto riportato da Reuters, i paesi dell’OPEC (l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio) stanno perdendo oltre 500 milioni di dollari al giorno di potenziali entrate. Per quanto pronosticabile, dunque, la crisi petrolifera risulta essere preoccupante.

Per trovare delle contromisure, lo scorso 6 marzo i membri dell’OPEC e altri 10 grandi produttori petroliferi mondiali si sono riuniti a Vienna nel vertice OPEC+, convocato proprio al fine di discutere della situazione attuale del greggio. La proposta principale, appoggiata dagli altri paesi del cartello, è stata avanzata dall’Arabia Saudita, primo paese produttore al mondo di petrolio. Essa prevede di diminuire la produzione di circa 1,5 milioni di barili al giorno, in modo tale da compensare e contenere la diminuzione dei prezzi.
La discussione si è però conclusa con una fumata nera, dato che la Russia, secondo paese al mondo per produzione di petrolio, si è opposta con forza a tale eventualità messa sul tavolo dai paesi arabi. Secondo il Cremlino, essa non rappresenta una soluzione efficace a lungo termine, come sostenuto, tra l’altro, anche da alcuni analisti di Goldman Sachs, una delle più grandi banche d’affari al mondo.
La spaccatura si è rivelata decisamente pesante, a tal punto che il ministro dell’Energia russo Alexander Novak, a dimostrazione del proprio disappunto, non solo ha abbandonato il vertice, ma ha anche dichiarato che «non ci saranno più restrizioni a produrre né per l’OPEC né per i paesi non OPEC» da aprile, ossia allo scadere dell’intesa OPEC+ siglata solo nello scorso dicembre.
La strategia della Russia, sostanzialmente, sembrerebbe essere quella di sopravvivere in autonomia. Da un lato, il rifiuto di Mosca si spiega con la volontà di non fare sacrifici di cui avrebbero potuto approfittare altri produttori di petrolio, come quelli statunitensi di shale oil (olio di scisto). Dall’altro, il Cremlino può operare in vista della propria stabilità economica. In tal senso, l’incremento delle riserve valutarie ha consentito alla Russia di abbassare il proprio punto di pareggio, ossia la quantità di volume produttivo sufficiente a coprire i costi sostenuti, a $42,5 al barile. Per avere un termine di paragone, il Fondo Monetario Internazionale stima che quello dell’Arabia Saudita si attesti intorno a $80-85. Inoltre, il presidente russo Vladimir Putin, attraverso il proprio Ministero delle Finanze, ha annunciato che, se necessario, il fondo sovrano sarà svuotato: i 150 miliardi di dollari in cassa al primo marzo sono «sufficienti a coprire le entrate mancate se il prezzo del petrolio scende a 25-30 dollari al barile per 6-10 anni».

La mossa della Russia ha irritato non poco le altre potenze petrolifere. L’Arabia Saudita non ha fatto attendere la propria reazione, con misure extra previste per i prossimi mesi. Lo stato arabo ha annunciato la volontà di aumentare al massimo la produzione petrolifera, puntando dichiaratamente all’Europa, tradizionale mercato di sbocco per il petrolio russo, tramite pesanti sconti sui prezzi. Saudi Aramco, la società petrolifera di bandiera, lo scorso weekend ha infatti diffuso i propri nuovi listini, con sconti compresi tra gli $8 e i $10 al barile. Riyad, in sostanza, ha optato per una risposta decisa e non conciliatoria che punta ad allargare le proprie quote di mercato a discapito dell’ex-alleato russo.
Per quanto riguarda il punto di vista degli Stati Uniti, che di certo hanno un peso enorme in questa disputa, il presidente Donald Trump ha espresso via Twitter il proprio pensiero: «i motivi della caduta del mercato sono l’Arabia Saudita e la Russia che litigano su prezzo e flussi del petrolio e le Fake News!» ha twittato il presidente statunitense.
Questa guerra dei prezzi dà l’impressione di poter durare per molto tempo. Da un lato la Russia, che perseguendo una strategia isolazionista lontana dagli accordi dell’OPEC, dichiara di poter sopravvivere anche 10 anni con prezzi ai minimi storici. Dall’altro, l’Arabia Saudita mira a compensare la diminuzione dei prezzi vendendo più petrolio, inondando un mercato, però, già saturo e peraltro al momento in grado di consumare le risorse solo in minima parte, dal momento che a causa del virus gli aerei non volano, le fabbriche lavorano a rilento e le persone non si spostano. In mezzo, l’incognita rappresentata dagli Stati Uniti, le cui strategie geopolitiche potrebbero essere decisamente differenti nei prossimi mesi, in base a come andranno le elezioni presidenziali di novembre.
Tutto questo, come se non bastasse, avvolto nell’incertezza del Covid-19, le cui evoluzioni a livello globale, ad oggi, non sono realisticamente prevedibili.
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